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«Quaderni della Fondazione Piaggio», nuova serie, II, 2004
Recensione di Antonella Bilotto

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Il 19 settembre 2003 a Pontedera, presso l’archivio storico Antonella Becchi Piaggio, in occasione del decimo anniversario dalla sua costituzione, la Fondazione Piaggio ha organizzato una giornata di studio sugli archivi d’impresa. A distanza di un anno, nel dicembre 2004, sono stati pubblicati gli atti di quella giornata all’interno della collana Quaderni della Fondazione Piaggio, nuova serie, II, 2004.

E subito sul titolo si appunta la mia attenzione: «Alla scoperta delle carte. Storia, innovazione e design nell’archivio d’impresa». Il volume si sviluppa ripercorrendo le sessioni della giornata di studio: dopo l’apertura dei lavori una prima sessione introduttiva viene guidata da Tommaso Fanfani che punta il dito sulla memoria e sul suo ruolo distintivo tra le imprese, tale da portare Giovanni Alberto Agnelli ad affermare che «presentarsi sui mercati davanti a interlocutori economici autorevoli potendo vantare una propria storia plurisecolare suscitava subito maggior considerazione negli interlocutori e potenziali clienti» (Fanfani, p. 17). Ed è forse superfluo aggiungere che è proprio l’archivio organizzato e fruibile a comunicare all’esterno l’esistenza di una storia plurisecolare.

Nel secondo intervento, a chiusura della prima parte a carattere teorico, Antonio Romiti invece insiste sulla incondizionata «libertà del soggetto privato [l’impresa] nelle decisioni attinenti alla conservazione della memoria» e propone l’applicazione di obblighi volti invece a «regolamentare le modalità e le procedure conservative» (Romiti, p. 33) per arginare questa libertà deleteria, a dispetto dei «teorici dell’archivistica i quali, in linea generale hanno accettato l’idea che la libertà del privato in questo settore non avrebbe potuto e non avrebbe dovuto essere intaccata» (p. 34). Le regole proposte poi nelle pagine successive, che vanno dalla separazione dell’archivio corrente, di deposito e storico nelle imprese, all’applicazione di un titolario, indicano la direzione di una ipotetica correzione e costrizione di questi soggetti privati affinché non eliminino una sorta di memoria della collettività, dato che «l’impresa che non conserva la documentazione prodotta non solo distrugge la propria memoria, ma cancella anche le testimonianze di tutti quei soggetti che con essa si sono collegati ... » (p. 33).

A questo punto mi sorgono i primi dubbi: che cosa dobbiamo o possiamo far conservare alle imprese nei propri archivi? È proprio vero che esse non hanno la sensibilità a conservare nulla se non opportunamente costrette? Chi deve decidere che cosa tali soggetti devono conservare e che cosa no? Forse tali risposte si possono trovare nello svolgersi del volume laddove nella terza parte vengono illustrati gli onnipresenti «casi aziendali».

Ma prima di toccare con mano la realtà «raccontata» degli archivi di impresa, bisogna ancora passare da una seconda sessione, che definirei intermedia tra la prima introduttiva, e in certo qual modo teorica, e la terza che praticamente descrive alcune situazioni reali. In questa seconda sessione Linda Kaiser, Renato Delfiol e Roberto Cerri ci guidano nel mondo della valorizzazione per lo più volta a una spiccata informatizzazione dei supporti documentari, al fine di rendere appetibili e funzionali alcune tipologie documentarie conservate negli archivi, riversando on-line alcune informazioni. Non sono solo le banche dati dei brevetti industriali a costruire un network europeo rendendo immediatamente accessibile e fruibile il mondo dell’innovazione tecnologica (Kaiser p. 46-48), ma sono anche i Censimenti degli archivi d’impresa a fornire il quadro di un mondo in continuo divenire e quel collegamento tra il pubblico (soprintendenze archivistiche) e il privato difficile da attuarsi (Delfiol pp. 55-58). Sarà poi proprio la spinta all’informatizzazione a collegare gli archivi con il mercato, laddove questi ultimi non saranno il luogo di pochi esperti ma il bacino a cui attingeranno utenze molto più ampie (Cerri pp. 68-69). Ma dato che non è possibile «fare degli archivi tanti musei» (pag. 69) come era accaduto in certo qual modo con l’iniziativa delle «domeniche in archivio» promossa dal ministero per i Beni culturali, nelle imprese potrebbero proporsi comunque soluzioni di allargamento dell’utenza: dato «che spesso [esse] ospitano tra le loro mura ... anche la raccolta dei prodotti ... si dovrebbe parlare di istituzioni culturali ibride ... dove la sezione archivistica si incastra perfettamente con la sezione museale e con le collezioni fotografiche e filmiche della stessa impresa» (p. 69).

A questo punto però sono un po’ più confusa: nel titolo si parlava di «carte», ma poi si è proseguito col proporre soluzioni di tutela e valorizzazione digitale; ora si aggiunge una valenza «estetica», quella invece legata agli oggetti delle imprese, compresi i documenti prodotti su supporti non tradizionali, tra cui i film.

È allora giunto il momento di vedere come rispondono le aziende: la terza sessione. In questi «casi aziendali» ritroviamo almeno tre categorie: nella prima ci sono coloro che raccontano la «storia» – e la chiamerei istituzional-economica – che si ricava da determinati documenti d’archivio (ad esempio Baglioni, pp. 108-119); sul secondo fronte si vedono invece coloro che parlano degli archivi con un forte impatto di comunicazione con l’esterno: un po’ come ritornare all’Agnelli di sopra. È l’illustrazione del caso dell’archivio Olivetti e dei suoi filmati (Pacchioli pp. 92-95). Infine un «urlo» tra la folla quello dei racconti riferiti agli archivi di Ferragamo e Alessi laddove l’archivistica, intesa in senso tradizionale, è stravolta. La Appiani dice «vorrei ricordare che anche il nostro, come quello di Ferragamo, non è un archivio di carte, ma prevalentemente di oggetti (prodotti o prototipi) frutto dei novanta anni di storia dell’Alessi» (Appiani p. 160). E quasi a voler giustificare la pochezza della conservazione di documenti cartacei aggiunge: «Quindi quali sono le carte di cui siamo andati alla scoperta? Sono gli schizzi degli autori, i dossier tecnici, il carteggio con i designer» (p. 161) sottolineando a seguire la scelta nella costruzione dell’archivio della NON conservazione della documentazione aziendale.

E allora che tipo di memoria si conserva? Una memoria volta tutta verso il famigerato «prodotto», la ragione prima dell’esistenza di un’impresa?

E così i miei dubbi aumentano ancora. Quale parte dell’archivio bisogna conservare? Se siamo archivisti in senso tradizionale viene da pensare appunto alle «carte», se siamo «uomini» nell’impresa pensiamo ai filmati, se su di noi insiste un’organizzazione museale forte, in stretto contatto con la produzione del bene, allora si fanno largo i prodotti. Sembrano approcci completamente agli estremi: esiste un modo per conciliarli? Forse la storia, quella che si ricava dagli archivi, non è più solo la storia economica dei primi anni settanta, grazie alla quale le «fonti primarie» degli archivi d’impresa erano state valorizzate. Oggi gli archivi d’impresa puntano un po’ di più alla memoria come comunicazione e allora devìano: dalle scritture societarie agli archivi del prodotto.

È forse possibile trovare un punto di equilibrio tra i verbali dei consigli di amministrazione, i documenti paga degli operai, le pubblicazioni aziendali, le immagini e i filmati, gli strumenti di lavorazione, i prodotti finiti? Ferragamo sembra andare su questa strada, ma forse non è il solo. Questa stessa giornata di studi sembra andare in questa direzione, ribellandosi con forza al suo stesso titolo «alla scoperta delle carte» e a qualunque tipo di costrizione normativa, impraticabile in un settore così variegato e chiuso nel sua natura privata. C’è il codice civile che indica alle imprese quali carte possono buttare e nonostante ciò ci sono parti dei loro archivi che si conservano. Perché?

Forse perché l’imprenditore avverte la rilevanza intellettuale di ciò che fa; è su questa questione, credo, che conviene insistere più che sul dato della coercizione, innaturale per l’impresa.

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