Le ragioni costitutive
                La governance e il rapporto con l’impresa
                                  Lo staff e le collaborazioni
                                  Gli  aspetti gestionali
                            
                                
G.P: Quando nasce la Fondazione  che è portatrice di una complessità che avete evidenziato, l’impresa genera un  soggetto che è proprio, ma anche diverso da sé. Impresa e Fondazione  differiscono nella struttura giuridica e nella missione. Ebbene, come si sono  strutturati i rapporti iniziali tra i due soggetti e come sono variati nel  tempo?
S.M.: Credo che alla Dalmine si  sia registrato un felice caso di assenza di problemi. Il progetto è partito da  due fattori: cercare una persona che se ne facesse carico e cercare la forma – associazione,  fondazione… c’erano due o tre possibilità, studiare un attimo la forma. Direi che il  primo passo è stato il felice incontro o rincontro con Carolina Lussana che  aveva già lavorato per quell’archivio...
C.L.: Consultandolo, in realtà,  quindi come cliente. 
S.M.: … e che mettendo mano a queste  carte storiche, importanti, ha convinto il dr. Rocca che esse avevano bisogno  di un intervento concreto di lavoro anche molto fisico, avevano bisogno di  impegno e di attenzione. Direi che ha convinto subito il dottor Rocca – che ha manifestato  sin dall’inizio un forte interesse personale alla Fondazione, accompagnata da  una presenza diretta – e me, che ero stato incaricato di attivare questo  progetto, per cui abbiamo convenuto che Carolina fosse la persona giusta e  l’abbiamo coinvolta. Devo dire che si è rivelata una decisione  straordinariamente giusta perché fin qui siamo arrivati e siamo pienamente  soddisfatti di quello che sta crescendo. Dal punto di vista societario abbiamo costituito  questa Fondazione che è gestita da un consiglio di amministrazione di tre  persone.
G.P.: Dunque l’impresa è socio  unico della Fondazione.
S.M.: Socio unico, quindi diciamo,  in modo molto semplice, che si discutono insieme a Carolina i progetti e i  programmi con un respiro biennale, dato che molte cose in un anno non si  mettono insieme. Gli indirizzi strategici partono dal recupero di ciò che sono  la storia e l’archivio, ma vanno anche più in là toccando la cultura  dell’impresa e l’orizzonte più ampio attorno a questa. In questa fase la dottoressa Lussana  e la Fondazione si stanno anche occupando di altre carte del gruppo in giro per  il mondo e quindi la Fondazione è diventata anche un po’ la testa di  quest’attività diciamo archivistica, e di cultura d’impresa. La Fondazione non  rappresenta l’unico braccio operativo del Gruppo sul terreno culturale: abbiamo  altre attività, come la   Fondazione Proa a Buenos Aires che si occupa di arte  contemporanea, siamo presenti come soci fondatori nella Galleria d’arte moderna  contemporanea di Bergamo. Ma la Fondazione è il luogo della cultura d’impresa  vera e propria, il luogo della cultura d’impresa… 
C.L.: Intesa come memoria…
S.M.: … non  solo come memoria, ma forse anche qualcosa di più: della cultura relazionata direttamente  alla natura dell’impresa. Poi, dato che ce ne occupiamo assieme, lei da una  parte e io dall’altra, questi progetti alla fine funzionano anche perché la  gente si parla, va d’accordo, ha gli stessi intenti. Alla dottoressa Lussana è  stato affidato il compito di concentrarsi in massimo grado sul patrimonio  storico. Ora, man mano che questo viene ordinato e reso fruibile anche on-line  possiamo iniziare a guardare a quello che c’è fuori. Ma non è il nostro progetto  passare i prossimi cent’anni a rimuginare sulle stesse carte. Anche perché poi  i pensieri che uno fa sulle carte che ha, non si autogenerano.
C.L.: Sì, anche perché i  destinatari verso i quali noi ci rivolgiamo non sono solo gli studiosi di  storia dell’impresa, quindi è nostro interesse principale anche affrontare questo  patrimonio che è l’archivio con ottiche diverse da quelle strettamente legate  alla storia, quindi sviluppare filoni di approfondimento che ci possano  condurre anche fuori dalla storia Dalmine, della Dalmine tout-court. Come già  abbiamo fatto, la fotografia, l’architettura, il rapporto tra arti visuali e  cultura industriale che poi possono condurre davvero a relazionarsi anche con  istituzioni che si occupano di altri temi rispetto ai nostri originari.
G.P.: Quindi il focus  dell’attenzione è l’incontro culturale con la comunità?
C.L.: Esatto.
S.M.: Sì, oggi diciamo tra le  nostre attività culturali le due più importanti sono certamente la Fondazione e  la Gamec, una galleria d’arte moderna e contemporanea gestita da una  associazione costituita tra il comune di Bergamo e la Dalmine. Fino ad ora  ci siamo detti che la Fondazione guarda indietro mentre avanti guardiamo  attraverso l’arte contemporanea, però anche questo non è un assoluto. Direi anzi  che la Fondazione Dalmine  comincia a palesarsi come interlocutore culturale a pieno titolo. D’altro lato  non è nostra intenzione forzare questo concetto fino a perdere alla Fondazione le  sue caratteristiche di archivio d’impresa. Quindi è un percorso in cui va bene  allargarsi, va bene uscire, ma non perdere un’identità che potrebbe in futuro  conoscere una ulteriore espansione che però oggi non siamo in grado di  prevedere. Perché il fatto rilevante è che Tenaris si è ingrandita acquisendo  altre società in giro per il mondo che non hanno la storia in comune delle  prime tre, che costituiscono il nucleo centrale. Quindi, quale ruolo potrà  avere la Fondazione in questo scenario più ampio? Sinceramente non lo sappiamo,  ma credo che questo tema dovrà far parte di una riflessione con il dottor  Rocca.
G.P.: Il punto è quindi quello  della concentrazione di nuovi patrimoni storici in parallelo con l’espansione  multinazionale dell’impresa.
S.M.: Sì, anche se essendo  imprese che fanno lo stesso prodotto e nella maggioranza dei casi hanno  tecnologie consimili, ci sono sempre punti di contatto. Non è una situazione in  cui uno compra una fabbrica di scarpe in Scozia e il giorno dopo chissà cosa: c’è  un filo rosso e spulciando tra le carte lo si individua. Però questo tema fino  dove arriverà?
C.L.: In questo momento invece  l’Argentina e l’Italia sono i due paesi nei quali ormai le relazioni sono  strutturate e si sono già strutturate anche attraverso la curatela da parte  nostra di una mostra storica sui cinquant’anni dell’impresa argentina che  abbiamo fatto nel 2004 e poi altri lavori più specificamente archivistici sulle  carte di Buenos Aires.
G:P.: È comprensibile, anche  perché lo sforzo principale di un soggetto multinazionale è quello di favorire  l’integrazione e il veicolo culturale è uno dei potenti elementi di  unificazione del sistema. 
C.L.: E dall’altro gioca il fatto  di aver sviluppato qui, in questi ormai otto anni e mezzo di lavoro delle  professionalità che talvolta in altri paesi è meno facile reperire e che vale  la pena impiegare anche in altre realtà per avviare processi analoghi. Il  fronte degli archivi d’impresa per esempio in Argentina ha uno scenario meno  avanzato rispetto a quello europeo.
S.M.: Sono ben pochi i gruppi e  le imprese che possono vantare una continuità così estesa.
G.P.: Infatti il problema grosso  è la discontinuità…
S.M.: E poi devo dire che io sono  convinto che questi progetti funzionano per le persone che le animano. È il  lavoro di Carolina che determina la presenza di una leadership, perché la  leadership uno se la conquista se ha qualcosa da dire e da fare più degli  altri.
G.P.: Torniamo ora al tema della governance. La Fondazione è una onlus a  socio unico e lei ne è consigliere.
S.M.: Siamo in tre.
G.P.: … tre consiglieri designati  dall’impresa. Non è mai stata avvertita l’esigenza di aprire la Fondazione al  territorio, come ad esempio fece Giovannino Agnelli alla Piaggio?
S.M.: Da noi in passato non se ne  è mai parlato né ne vedrei la necessità oggi.
C.L.: Nei fatti, questo è già  avvenuto. 
S.M.: Trovo molto più  interessante lavorare su progetti come il “faccia a faccia” in corso, che avere  in consiglio questo o quel professore. Non ne vedo il vantaggio. Essendo oltre  tutto in una fase, come dicevo, di consolidamento del lavoro di questi otto  anni di lavoro e di riflessione sul dove andare, è anche possibile che le  domande non trovino le loro risposte su questo territorio. Sicuramente le  risposte avranno a che fare con le scelte di Tenaris: se la Fondazione fosse un  organismo che è qui, solo qui e starà qui, allora potrei far posto a persone  nuove che mi aiutino a riflettere perché avrei definito su che cosa voglio  riflettere. Noi siamo ancora in una fase in cui preferiamo sentirci liberi, magari  sbaglieremo, ma preferiamo così. Sul piano operativo, invece è importante  preoccuparsi di avere degli interlocutori con cui valutare il valore delle  decisioni prese, questo è un altro discorso. Vuol dire sviluppare rapporti con  il territorio e questa rete di interazioni con altri protagonisti della cultura  d’impresa aiuta a percepire se si sta intraprendendo una strada sbagliata.  Bisogna vedere cosa fanno gli altri e come essi ci giudicano, occorre sapere se  il proprio lavoro è apprezzato o non è apprezzato. Ma se in questo momento  dovessi anche dire apriamoci, portiamo dentro qualcuno, non saprei chi scegliere.  Chi mi può aiutare a capire come declinare la nostra realtà? Una realtà che  cambia così rapidamente? È chiaro che non vogliamo chiuderci neanche su noi  stessi e dunque per me è importante interagire con il territorio attraverso la  nostra attività e la partecipazione alle attività che il territorio può  proporre. Inoltre per territorio si può intendere anche qualcosa di più esteso,  come il circuito dei musei d’impresa o delle associazioni che operano  nell’ambito della cultura d’impresa.
C.L.: All’interno dei quali  volentieri allora entriamo. Ma è un po’ anche la filosofia, in generale, che io  stessa ho respirato da quando lavoro per la Fondazione Dalmine,  che è quella proprio di un orientamento a un obiettivo specifico, a un progetto  specifico. Non esistono partner in astratto, esistono nella misura in cui tu  definisci un oggetto, un obiettivo, un argomento, un tema, uno sviluppo e  allora hai, insieme alla costruzione delle condizioni per raggiungere questo  obiettivo, anche la scelta – sempre bilaterale e reciproca – di un partner. In  questo senso, tutte le iniziative che in questi anni abbiamo sviluppato le  abbiamo sempre fortemente costruite: vuoi quelle più locali con il comune di  Dalmine, vuoi quelle con il comune di Bergamo che ci ha ospitato ogni anno  quando abbiamo realizzato o promosso mostre di una certa importanza, che  meritavano una platea non legata esclusivamente al territorio circostante la fabbrica. Quindi  la partnership è nelle cose e nei progetti. Questa è una filosofia che direi  anch’io ho imparato, venendo invece da un ambiente che era forse più quello  legato all’accademia, all’istituzione pubblica, dove la definizione dei partner  viene prima quasi. Invece qui abbiamo sempre lavorato fortemente orientati al  cosa fare, come e con chi.
S.M: Anche perché lo stile della  casa è abbastanza informale, poco istituzionale e invece più orientato al  progetto, alla realizzazione.
C.L.: E all’eccellenza. Che  quindi ti spinge a relazionarti a partner…
S.M.: Sì, a me non piace mai  dirlo, però se c’è una serie A dobbiamo cercare di starci. Poi non è che basta  dirlo, devono essere gli altri a riconoscerlo, però sicuramente siamo contenti  del cammino che è stato fatto. Credo che oggi la Fondazione Dalmine  sia una realtà e in fondo è partita da zero. Voglio dire, l’anno scorso era il  centenario della Dalmine. Avvenimento per noi molto importante, per cui la Fondazione  ha giocato un ruolo straordinario, straordinario per importanza e credo anche  straordinario per il lavoro che ha fatto. Beh, è chiaro che questo lavoro può  in un certo senso avere distratto certe attenzioni, perché alla fine è stato  proprio un braccio operativo di realizzazione di mostre, di convegni, di libri,  ecc., per cui un percorso lineare teorico poteva anche essere ristretto, però  mi è sembrato anche essenziale che il protagonista di molte iniziative  organizzate per il centenario fosse la Fondazione, non solo nell’illustrare la  propria storia, ma anche aiutando l’impresa su progetti che guardavano un po’  più in là. Però, adesso, quest’anno chiaramente sarà un anno un po’ più di riflessione:  qualcosa è stato tralasciato, qualche programma è in sospeso e questo è un anno  in cui saremo un po’ più concentrati su noi stessi. 
C.L.: Un anno di consolidamento  di pratiche interne e ovviamente di prosecuzione del lavoro sull’archivio e  sulla biblioteca, che è un lavoro importante.
S.M.: E di ampliamento degli  spazi fisici. Noi abbiamo un progetto di raddoppio degli spazi, che comporta  l’acquisizione alla Fondazione della palazzina bianca a nord est, vicino alla  torre di raffreddamento degli anni cinquanta. Non è antichissima, ma è  diventata un simbolo dell’impresa, date le dimensioni. In questo modo, la  Fondazione arriverà a occupare due delle tre ville.
G.P.: Ancora una domanda sulla governance: questa istituzione non  dispone di un comitato scientifico? 
C.L.: Abbiamo puntato all’agilità:  a domanda diretta, risposta diretta. 
G.P.: Direttissima.
C.L.: Ne abbiamo parlato  inizialmente, ma la stessa risposta che abbiamo dato per il punto precedente  vale anche per questo secondo aspetto. Ci sembra importate costruire gruppi di  lavoro ad hoc – e ciò vale anche per la consulenza scientifica – che siano  fortemente centrati sui singoli progetti. Avendo iniziato a lavorare sull’archivio,  abbiamo ritenuto che lo staff messo in piedi da me e dai collaboratori che pian  piano ho coinvolto nel lavoro, fosse già sufficientemente specializzato nel core business iniziale. Viceversa, man  mano che abbiamo programmato e progettato mostre e iniziative, ci siamo rivolti  a gruppi di studiosi diversificati. Anche per costruire una rete di relazione  varia e diversificata che secondo me è un elemento di ricchezza.
S.M.: Il compito che si riserva  il consiglio di amministrazione è quello di definire il programma e i progetti:  dopo di che per ogni progetto occorre creare comitati, staff e ciò che serve a dare  una credibilità riconosciuta al progetto stesso. Avere un comitato sarebbe  stato complesso anche perché, guardando ai lavori svolti, avremmo dovuto allargarlo  agli architetti, a esperti del mondo dell’arte e della fotografia. Alcune  collaborazioni poi sono fisse, a cominciare da quelle con la Gamec con cui  evidentemente il rapporto è più organico: se mi chiedete chi è il nostro  consulente artistico nel campo del contemporaneo, io cito Giacinto di Pietrantonio,  il direttore della Gamec, che è bravissimo, e chiaramente vado da lui e da  Maria Cristina Rodeschini [l’altro direttore della Gamec] per avere un primo  confronto. 
C.L.: Il modello organizzativo è  focalizzato sullo stile dell’impresa e aggiungerei, perché è doveroso, su un’ampia  delega al direttore che si muove rapidamente avendo la possibilità di un confronto  frequente e anche informale con i propri consiglieri. Tali condizioni  compensano l’assenza di altri soggetti che possano contribuire al disegno delle  linee operative o delle linee scientifiche. Al di là dei momenti istituzionali,  che ovviamente ci sono nel corso dell’anno, la costruzione dei progetti è  veramente frutto di un confronto continuo.
S.M.: Ecco direi che Carolina ha  centrato il tema: c’è un’autonomia della Fondazione, perché facendo cose  completamente diverse, deve avere una sua autonomia altrimenti il grande  animale con le sue procedure la stritolerebbe. Le grandi imprese si strutturano  giustamente per fare quello che devono fare e, in un certo senso, anche  espellere gli anticorpi. Io mi sono sempre occupato di temi poi legati ad  attività non core business, e  ovviamente quando uno è in questa posizione si rende conto che l’impresa tende  naturalmente, attraverso la proceduralizzazione dei suoi processi, a dire: «Ma  tu non centri niente». Quindi è giusto che la Fondazione abbia una sua  autonomia altrimenti dovrebbe passare il tempo a spiegare perché fa le cose in  un modo diverso da come le fa il tubificio.  Però, al di là di quello che è un aspetto formale-organizzativo, la Fondazione  non è avvertita come un corpo estraneo, ma come una parte integrante  dell’impresa, anche come luogo fisico, forse perché è un luogo fisico anche  piacevole o forse perché Carolina è un’ottima anfitriona. Noi ogni tanto  veniamo qui a fare le riunioni, quando non vogliamo che ci distraggano. Qui si  può ragionare un po’ in pace, facendo magari un po’ di brain storming; invadiamo la Fondazione, ci mettiamo intorno a  questo tavolo e questo è già un modo per approcciare in modo diverso un  problema, perché questo luogo ci porta ad essere meno tecnici.
G.P.: Il pensiero creativo.
S.M.: Un pochino più creativo.  Sono fuori dalle sacre mura e quindi anche questa cosa fisica aiuta: la porta  grande di questa sala guarda verso il fuori, la porta piccola verso il dentro.  Casualità, era già così, però alla fine anche questo elemento può trovare un  significato.
G.P.: D’altro canto i luoghi  abitati dagli intellettuali contengono sempre un po’ di eresia e questa, quando  si è in giacca e cravatta, non sempre è consentita. 
S.M.: Certo, il direttore si  prende i propri rischi nelle scelte e viene valutato per il risultato del  prodotto, del progetto, e di come l’ha gestito. Però se funziona – e io credo  che stia funzionando – questo stile dà molto empower alle persone e voglia di fare le cose.