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L’archeologia industriale si è persa per strada?
Sintesi e commento di un dattiloscritto di Kenneth Hudson
a cura di Massimo Negri

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Premessa
L’archeologia industriale si è persa per strada?
 

A proposito della differente accoglienza da parte della società verso i temi del patrimonio industriale, dobbiamo però uscire da una semplicistica visione secondo cui nei paesi di più antica industrializzazione tale processo è stato più rapido e facile. Proprio nella Rolt Memorial Lecture da cui abbiamo preso spunto, Kenneth Hudson, dopo aver tratteggiato quello che egli definisce il processo di «democratizzazione della storia» attraverso l’opera di Trevelyan, Hoskins e Crawford racconta a proposito:

 


«Questo fu dunque il suolo fertile in cui fu piantata l’archeologia industriale, un compost di storia sociale, storia locale ed un’archeologia resa più comprensibile. Il termine ‘archeologia industriale’ fu quasi certamente inventato nei primi anni cinquanta da Donald Dudley, allora direttore dello Extra-Mural Department dell’Università di Birmingham. Egli non fece molto di più che evocare questa espressione nel corso di una conversazione, probabilmente ‘tra virgolette’. La sua prima comparsa in forma stampata avvenne nell’autunno del 1955, nell’articolo scritto per The Amateur Historian da un membro del suo stesso Dipartimento, Michael Rix, che diede una definizione implicita più che esplicita di questo nuovo termine. ‘La Gran Bretagna’ diceva Rix ‘in quanto luogo di nascita della rivoluzione industriale è piena di monumenti lasciati da una serie ragguardevole di avvenimenti. Un qualunque altro paese avrebbe messo in moto un meccanismo per la registrazione e la conservazione di queste memorie che simbolizzano il movimento che ha cambiato volto al pianeta, ma noi siamo talmente dimentichi della nostra eredità nazionale che, a parte alcuni pezzi da museo, la maggioranza di questi luoghi sono negletti o dissennatamente distrutti’. Da quando Michael Rix ha formulato in questi termini l’espressione Archeologia Industriale, questa è stata fortemente criticata e molto disprezzata, sebbene nessuno sia ancora stato capace di suggerire un’alternativa più accettabile».

 


Tra le cause di ostilità verso l’archeologia industriale alle origini stava la questione dello scarso spessore storico dei materiali studiati, giudicati troppo recenti per essere oggetto di un programma di ricerca «archeologica» in senso stretto. A questo proposito, così prosegue Kenneth Hudson:

 


«Ogni cosa ha la sua nascita e la sua vecchiaia e ogni cultura e ogni attività industriale devono essere considerate relativamente alla loro scala temporale. Nel caso dell’industria del petrolio, ad esempio, i monumenti più rari e antichi datano alla seconda metà del XIX secolo. Per l’energia nucleare e per molte materie plastiche e fibre sintetiche dobbiamo rivolgerci agli anni quaranta. Per i ponti di ferro il punto di partenza è la metà del XVIII secolo. È inutile e ridicolo cercare di stabilire una data arbitraria che possa essere utilizzata per dividere ciò che è vecchio da ciò che è recente, ciò che è archeologicamente accettabile da ciò che è archeologicamente disprezzabile.

[…] Nel libro Industrial Archaeology: an Introduction ho tentato di formulare una mia breve definizione: ‘L’archeologia industriale – scrissi – è la scoperta, la registrazione e lo studio dei resti fisici delle attività industriali e delle vie di comunicazione di ieri’. Ma aggiunsi: ‘ogni decennio interpreterà il termine studio a modo suo, con le sue idee a proposito di ciò di cui si va alla ricerca e di quei dettagli meritevoli di registrazione’. Ritengo che sia la definizione sia la previsione abbiano superato il test del tempo in maniera ragionevolmente positiva e oggi io non mi debbo vergognare di nessuna delle due.

Nella terza edizione di quel mio lavoro, nel 1976, suggerii che ‘durante i venti anni appena trascorsi, l’archeologia industriale britannica è passata attraverso due fasi di cambiamento e sviluppo ed è ora in procinto di entrare nella terza’».

 


Per descrivere queste tre fasi Kenneth fa ricorso a ulteriori ampie citazioni dal suo libro. Per evitare l’inflazione di virgolette richieste da tale serie di citazioni nella citazione , riportiamo direttamente i passi più interessanti da Industrial Archaeology: an Introduction, edizione 1976:

Fase Uno

 


«Un piccolo gruppo di pionieri curiosamente assortito dedicò molto tempo ed energia a sensibilizzare il pubblico intorno al problema della rapida scomparsa degli edifici e dei macchinari che documentano la storia dell’industria e della tecnologia inglesi, specialmente per quanto riguarda il XIX secolo. Con libri, articoli, conferenze, trasmissioni e lettere alla stampa , questi entusiasti cercarono di convincere, con un vero spirito di crociata, burocrati diffidenti e rigidi, imprenditori insensibili e accademici scettici, se non veramente ostili, che fabbriche, macchine a vapore, chiuse erano della stessa importanza culturale dei castelli, delle cattedrali e degli arredi del XVIII secolo».

 


La Fase Due (in graduale sviluppo da partire dal 1960 circa) ha tre aspetti principali:

 


«[…]si costituiscono in tutta la Gran Bretagna gruppi di dilettanti che perseguono gli obiettivi della archeologia industriale come un hobby, inizia un rudimentale Catalogo Nazionale dei Monumenti Industriali e si riscontra un tardivo interesse accademico […] se la Gran Bretagna ha dato un contributo specifico alla archeologia industriale , ciò è avvenuto nella forma di questi gruppi e associazioni di appassionati e dilettanti».

 


La Fase Tre , pienamente affermatasi alla metà degli anni settanta è caratterizzata dal fatto che:

 


«un numero crescente di persone cominciano a mettere frutto i risultati delle fasi Uno e Due e a domandarsi cosa tutto questo avesse voluto significare. Quale è lo scopo di tutto ciò? Quanto abbiamo bisogno della archeologia industriale? Una volta sconfitti i nemici della conservazione e riportate gloriose vittorie nelsalvataggio per la posterità di vecchi mulini idraulici, gasometri, macchine a vapore: quale è la natura di questi trionfi?

Queste erano le domande che mi ponevo con forza negli anni settanta unitamente ad altri induriti da tante battaglie per l’archeologia industriale. ‘Accumulare pezzi di archeologia industriale – scrivevo – non è molto diverso dal collezionare francobolli, monete o etichette di scatole per fiammiferi. Per molte persone il semplice gesto del collezionare è sufficiente. Esso diventa totalizzante ed una passione che comincia a 14 anni è ancora tale a 60. Ma per altri l’acquisizione per l’acquisizione diventa presto noiosa, sia che la collezione consista di uova di uccello oppure di oggetti per il National Survey of Industrial Monuments. Tutti questi pezzi del mosaico debbono portare a qualche cosa, debbono contribuire alla comprensione di un campo più vasto.’

E quel campo più vasto deve essere il fornire materiale e nutrimento alla immaginazione storica. La finalità dello studio della storia, di qualunque tipo di storia, è il pervenire a una migliore comprensione della vita dei nostri predecessori, con la sua mescolanza di grandi e piccole cose. Questa comprensione deve essere alimentata con materiali provenienti da tutte le possibili fonti: ampie letture, conversazioni e memorie di famiglia, visite a siti e musei, esame di quadri e fotografie. L’archeologia industriale non può fare di più che aggiungere un’ulteriore dimensione a ciò che è già disponibile in altri ambiti. Può aiutare a dare un senso più compiuto all’insieme. Considerarla un fattore in sé, a parte è un obiettivo pateticamente sterile. La storia si occupa delle persone non degli oggetti, e gli oggetti, siano essi macchine a vapore, fabbriche di cotone o stoviglie del neolitico, hanno un valore solo in quanto forniscono informazioni su chi li usava. Per usare le parole di Crawford, l’archeologia è il passato remoto della antropologia e l’archeologia industriale è il passato remoto dei lavoratori dell’industria.

Di certo non è sufficiente fare quanto i cosiddetti archeologi industriali hanno fatto negli ultimi venti anni, visitare i luoghi sacri, i luoghi che sono stati adeguatamente documentati dai loro predecessori. L’archeologia industriale era un’attività viva negli anni sessanta e settanta perché coloro che vi prendevano parte avevano la soddisfazione di comprendere che, spesso in modi relativamente umili, essi stavano contribuendo al patrimonio comune di conoscenze storiche. Negli anni ottanta e novanta, tuttavia, il suo appeal è andato appannandosi, in gran parte perché la gente si è stancata di contemplare sempre gli stessi vecchi pascoli. L’archeologia è essenzialmente un’occupazione attiva in cui le persone sono stimolate dalla prospettiva e dalla realtà di fare nuove scoperte. Il lavoro sul campo è essenziale al fine di assicurare un costante afflusso di linfa fresca. Se il lavoro sul campo svanisce, il piacere e il godimento della ricerca cominciano a sfuggire e si smarrisce il senso del progetto.

Ciò non equivale a dire, esplicitamente o implicitamente, che il materiale già noto non sia costantemente bisognoso di un’analisi interpretativa. I modelli storici hanno bisogno di essere ripetutamente abbandonati, modificati e ridefiniti, ma questo è un lavoro specialistico che richiede esperienza e una forte immaginazione. Solo poche persone sono in grado di farlo, in qualunque generazione. Costoro sono i veri storici, i creatori, gli assemblatori di concetti e informazioni, coloro che esercitano un’influenza formativa e sanno distinguere il legno dagli alberi. Di queste persone c’è sempre scarsità. Per essere in buona salute, l’archeologia industriale ha bisogno di un numero adeguato di operatori di base – coolies, se volete – impegnati nel lavoro fondamentale di portare alla luce fatti precedentemente sconosciuti e di un numero ridotto di esperti che siano in grado di scandagliare e valutare il materiale che i coolies scoprono. Attualmente io credo che l’equilibrio tra questi due livelli non sia quello che dovrebbe essere. Abbiamo troppi ufficiali nel nostro esercito – e spesso si tratta di ufficiali piuttosto noiosi – e troppo pochi elementi negli altri comparti. La situazione mi ricorda quella dell’esercito polacco in esilio durante la seconda Guerra Mondiale. In questo senso, ciò che abbiamo chiamato per quasi mezzo secolo ‘archeologia industriale’, sta smarrendo la sua direzione. Si sta autoalimentando in una misura non auspicabile.

Per riporta la in buona salute occorre adottare almeno due provvedimenti. Una è una grande espansione del suo campo di azione, un’altra è un cambiamento di nome. Quello che è diventata la materia tradizionale dell’archeologia industriale è venuto alla ribalta principalmente perché numerosi reperti dell’età del carbone e del ferro erano distrutti in nome delle esigenze del progresso. Negli ultimi trenta anni un processo egualmente triste e serio di annientamento e trasformazione ha interessato campi che i Padri Fondatori della archeologia industriale avrebbero considerato non meritevoli della loro attenzione, ma che nondimeno sono monumenti culturali della stessa importanza di quelli di cui scrissi nella mia Introduzione alla archeologia industriale.

Mi riferisco a una varietà di luoghi come piccoli alberghi, cinematografi degli anni trenta, piccole macellerie e drogherie, showroom delle industrie del gas e della elettricità, e uffici non computerizzati. Tutto questo era parte di una cultura che sta svanendo rapidamente, una cultura che ha impiegato milioni di uomini in uno stadio della società capitalistica che è stato altrettanto importante di quello dei cantieri navali, delle fabbriche tessili e delle miniere di carbone che lo hanno preceduto e che hanno attratto un’attenzione così devota da parte della prima generazione di archeologi industriali […].

Per una ragione perfettamente comprensibile l’espressione ‘archeologia industriale’, un’associazione di termini improbabile che ha avuto un valore di suggestione potente, ha perso molto del suo richiamo. Sono convinto che sia venuto il tempo di sostituirla con qualche cosa che sia più pertinente alla situazione di oggi e di domani. Io suggerirei ‘archeologia dei luoghi di lavoro’ o, se lo ritenete troppo lungo e sgraziato, ‘archeologia del lavoro’. Anzi io sono a favore di questa ultima soluzione. Nella sua apparente assurdità e nel suo ‘sapore’ questa espressione può avere la stessa forza potenziale di quello che una volta era l’utile definizione di ‘archeologia industriale’. Inoltre essa copre tutte le fonti di occupazione trascurate che oggi richiedono così fortemente l’attenzione dei successori dei pionieri di quaranta o cinquanta anni fa. Alimenterebbe di nuova energia un corpo indebolito. Raccomando questo termine a voi e al prossimo conferenziere della prossima Rolt Memorial Lecture che potrebbe giocare con profitto intorno a questi concetti».

 


Oltre all’utile e vivo affresco della vicenda della archeologia industriale britannica, l’intervento di Kenneth Hudson ci propone due questioni essenziali: la necessità di riandare alle ragioni ultime della ricerca di archeologia industriale e quella di ridefinire il suo campo di azione facendo riferimento a orizzonti conoscitivi più vasti.

Non sappiamo se il suggerimento di Kenneth sia stato raccolto dagli organizzatori delle Rolt Memorial Lecture, ma ciò non significa che non ci si possa inoltrare sulla strada indicataci da uno dei grandi promotori di quest’ambito di lavoro culturale, disposti anche a rimettere in discussione apparati concettuali e metodologie che a me sembrano giunti ad una fase critica bisognosa di radicali ripensamenti.


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