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L’archeologia industriale si è persa per strada?
Sintesi e commento di un dattiloscritto di Kenneth Hudson
a cura di Massimo Negri

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Premessa
L’archeologia industriale si è persa per strada?

Alcuni anni dopo la scomparsa di Tom Rolt, Kenneth Hudson – ritenuto unanimemente se non il fondatore il maggiore promotore e divulgatore dell’archeologia industriale in Europa – fu chiamato a tenere una delle Rolt Memorial Lecture, che intitolò «L’archeologia industriale si è persa per strada?».

Tom Rolt è stato autore di una serie di importanti biografie d’ingegneri britannici dei secoli XVIII e XIX. Grandi protagonisti della Rivoluzione industriale. Tra queste forse le più affascinanti e complete sono quelle dedicate a Stephenson a Brunel, opere in cui non solo è reso conto del percorso tecnico-scientifico, ma è vivacemente rievocato quell’ambiente di tumultuose trasformazioni sociali, politiche ed economiche in cui si era svolta la loro azione.
Di quest’intervento Ann Nicholls (sua collaboratrice per molti anni) ha tenuto una versione dattiloscritta successivamente ritrovata tra le numerose carte lasciate da un autore così prolifico da contare al proprio attivo oltre 50 libri pubblicati in molte lingue oltre a innumerevoli articoli, saggi brevi, interviste e produzioni radiofoniche e televisive. La lettura di questo testo è ancora oggi – a quasi dieci anni di distanza – molto stimolante. Kenneth poneva, infatti, alcune questioni di fondo sulle origini e le finalità della ricerca di archeologia industriale e sullo «spirito» di quella che sempre si rifiutò di definire come una disciplina accademica, considerandola invece uno strumento di azione sociale e di orientamento culturale trasversale a diversi ambiti disciplinari.

A oltre venticinque anni da quello che può essere considerato l’avvenimento fondativo della archeologia industriale italiana e cioè il Convegno internazionale di Milano tenutosi alla Rotonda della Besana nel 1977 nell’ambito della mostra «San Leucio: archeologia, storia, progetto» – nel corso del quale si svolse tra l’altro un gustoso confronto tra Kenneth ed Eugenio Battisti che pure stava svolgendo in Italia un ruolo simile al suo nella diffusione dell’archeologia industriale –, le considerazioni esposte in quella Lecture dedicata alla memoria di Rolt conservano intatto il loro valore di utile provocazione intellettuale. Viene, infatti, ripercorsa quella «curva» della archeologia industriale britannica, da fenomeno pionieristico a passione di massa fino alla sua «accademizzazione» che, con molte differenze, si è registrata successivamente in molti paesi europei, e parzialmente anche nel nostro.

In Italia la cooptazione dello stesso termine di archeologia industriale nel linguaggio di massa, è giunta a conclusione di un lungo ciclo che ha visto la proliferazione di censimenti dei monumenti industriali nelle diverse regioni, la costituzione di un corpo notevole di lavori fotografici d’autore (tutti più o meno ispirati dall’opera di Gabriele Basilico), la realizzazione di una miriade di servizi fotografici e televisivi che hanno assunto i luoghi della archeologia industriale come set ideali per la loro forza espressiva posta di volta in volta al servizio di presentazioni di moda, di automobili, bevande, ecc. Per non dire del cinema dove le derelict land industriali sono state volentieri adottate come scenario di stati d’animo più o meno travagliati – da «Maledetti vi amerò» fino a «Nirvana» di Salvatores, solo per citare due casi cronologicamente e tematicamente distanti tra loro. Per non dire degli esiti dell’Arte Povera (Kounellis in primis) e anche di tantissima «pittura-pittura» dalla fine degli anni ottanta che ha ripreso in chiave iperrealista (Arduino Cantafora) oppure neodechirichiana (Paola Gandolfi) o ancora romantico-simbolista (alcune opere di Raffaele Bueno) la rappresentazione di architetture industriali storiche, reali o immaginate. Tutte manifestazioni artistiche lontanissime e radicalmente diverse per senso e intenzioni dalle interpretazioni di un paesaggio industriale sì monumentale, ma non rovinistico o comunque obsoleto, di marca futurista o, successivamente, neorealista. All’epica industriale e modernista di questi ultimi milieu culturali, si è andata sostituendo la rielaborazione dei materiali fisici o visivi dell’industria trascorsa, dismessa, oppure – se vogliamo usare un termine più crudo, ma veritiero – dell’industria morta. Possiamo cioè affermare che la percezione del sito archeologico-industriale in termini di monumento si è diffusa nella sensibilità collettiva innanzi tutto nella sfera estetica, più ancora che nella coscienza dei valori tecnologici oppure storico-sociali di cui esso è portatore. Quest’ultimo aspetto è ben documentato dal fatto che raramente in Italia l’organizzazione sindacale si è fatta portatrice in prima persona di progetti di conservazione e musealizzazione del reperto di archeologia industriale in senso stretto – altro è stato il discorso per il patrimonio documentario, soprattutto archivistico –, diversamente da quanto accaduto in altri paesi – si vedano ad esempio le esperienze dell’Ecomuseo di Bergslagen in Svezia, oppure il lavoro del Museo del Lavoro di Copenaghen nati sotto la spinta diretta del movimento sindacale.

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