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L’irresponsabilità dei manager
e il nuovo modello di impresa

di Luciano Gallino

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Agire in modo responsabile, per un’impresa, significa tenere conto delle conseguenze economiche, sociali, ambientali, che  le sue attività possono avere a carico di vari soggetti, al di là dei suoi proprietari e azionisti: dipendenti, comunità territoriali, risparmiatori, fornitori, piccole imprese dei sistemi produttivi locali. L’impresa irresponsabile è il suo contrario: mette in primo piano gli interessi degli azionisti, con particolare riguardo ai detentori delle quote maggiori, e ignora gli interessi di ogni altro soggetto. Tale comportamento non è dovuto a opzioni personali dei manager: è il comportamento cui sono tenuti dal nuovo modello di impresa che si è affermato dai primi anni 90 in poi, nonché dalla volontà dei principali azionisti, tra i quali predominano oggi gli investitori istituzionali.

Da un lustro circa i comportamenti irresponsabili in campo finanziario d’un certo numero di manager di grandi società fanno notizia, in Italia come in altri paesi. Sono a tutti note le vicende bancarie dell’estate-autunno 2005.  A fine 2005 si è avuto il rinvio a giudizio d’un folto gruppo di manager e di azionisti della Cirio,  il cui collasso risale all’inizio del 2003. Sotto processo sono attualmente i principali manager della Parmalat,  un crac avvenuto alla fine dello stesso anno, di dimensioni quindici volte superiori a quello Cirio.  Negli Stati Uniti hanno fatto scalpore le vicende giudiziarie, con relative condanne a pesanti pene detentive dei loro top manager,  della Enron (fallita nel 2001), della WorldCom (colosso delle telecomunicazioni fallito nel 2002), della Adelphia Communications.

Tutti questi top manager sono stati accusati d’avere scientemente falsificato i bilanci delle società di cui erano a capo, dichiarando profitti inesistenti od occultando perdite per miliardi di euro o di dollari. Per colpa loro investitori istituzionali e piccoli risparmiatori hanno subito perdite per centinaia di miliardi, a causa del crollo del valore borsistico delle rispettive società. La fiducia collettiva nei mercati di borsa e nella corretta gestione delle imprese è stata drammaticamente scossa.  Appare quindi necessario, si è quasi unanimemente affermato da noi come in Usa, rafforzare le norme di legge e i dispositivi di controllo idonei ad impedire che gli alti dirigenti si comportino in modo irresponsabile. Negli Stati Uniti ciò è stato fatto con la legge Sarbanes-Oxley, rapidamente elaborata e approvata dal Congresso nel 2002, pochi mesi dopo il collasso della Enron. Da queste vicende si è tratta la conclusione che il sistema delle grandi imprese è fondamentalmente sano, e possiede entro di sé gli anticorpi per combattere presto e con efficacia le eventuali devianze di qualche sua parte. Basta che la legge stimoli l’attività degli anticorpi.
Simile conclusione si presta a varie obiezioni.

La principale essendo che una interpretazione dei disastri societari degli ultimi anni, centrata sulla esclusiva responsabilità personale dei manager, appare appropriata in superficie, ma nel fondo è gravemente fuorviante. In quanto concentra l’attenzione dei media, della politica e del potere giudiziario sul solo campo dei meccanismi finanziari, e sulla condotta irresponsabile dei dirigenti, la distoglie dall’analisi delle cause strutturali che favoriscono tale condotta. Affermare ciò, è ovvio, non vale minimamente a giustificare la condotta stessa. Il punto critico non sta nella eventuale a-normalità della condotta dei dirigenti, quanto nella aberrante definizione delle strategie industriali  che da una quindicina d’anni vengono considerate normali nel governo delle imprese, e che i manager sono per un verso forzati, per un altro incentivati a mettere in pratica.E’ questo l’argomento che ho sviluppato nel libro L’impresa irresponsabile (Einaudi 2005).

Al fine di spiegare il comportamento odierno della maggior parte dei manager occorre far riferimento al nuovo modello di impresa cui molti di essi sono stati istruiti, e che hanno l’obbligo di mettere in pratica.  Alla luce di tale modello il  governo delle grandi imprese deve avere come  missione esclusiva la massimizzazione del valore per gli azionisti. Grazie alla sua applicazione ogni altro portatore di interesse è di fatto scomparso dall’orizzonte decisionale delle corporations. Si è trattato di una modificazione della concezione stessa dell’impresa che è stata teorizzata sin dagli anni ’80 da agguerriti plotoni di economisti.  Peraltro essa ha potuto affermarsi su vasta scala specialmente a causa dell’avvento al potere, nel corso degli anni ’90, degli investitori istituzionali: fondi pensione (in specie quelli anglosassoni), fondi di investimento, compagnie di assicurazione.

In un solo decennio, il totale degli attivi finanziari – azioni, obbligazioni, derivati ecc. – gestiti da tali enti si è moltiplicato per tre in Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, e per sei in Italia, che era partita da valori iniziali più bassi. Aggiungendo ad essi i capitali degli analoghi investitori di Canada, Giappone, Olanda, Svizzera, il volume di capitali controllati e gestiti dagli investitori istituzionali superava già nel 2000 i 30.000 miliardi di dollari. Questa cifra corrispondeva in quell’anno, come ordine di grandezza, al Pil di un anno del mondo intero. Nel 2004 essa lo ha ampiamente superato: il Pil del mondo ha toccato i 41.000 miliardi di dollari, mentre gli attivi degli investitori istituzionali (nei soli paesi Ocse sono saliti a 45.000 miliardi di dollari. Si noti che, in complesso, gli investitori istituzionali sono nel mondo decine di migliaia, ma la massa dei loro capitali appare concentrata  in poche centinaia di essi. Sono questi enti finanziari i soggetti reali che danno corpo alla cosiddetta “volontà” o “giudizio” dei mercati di cui parlano con deferenza le cronache economiche dei quotidiani. Mai tanto potere economico e finanziario è apparso concentrato in così poche persone.

Nonostante si tratti d’una forma di proprietà vicaria, ovvero per procura, poiché i loro manager amministrano capitali non loro, gli investitori istituzionali sono diventati di fatto i maggiori proprietari delle grandi imprese. Sebbene ciascuno di essi non possegga in genere più del 2% del capitale di una singola società, in molti paesi gli investitori istituzionali detengono nell’insieme una quota del capitale azionario in circolazione che varia dal 40% in Francia, al  75% nel Regno Unito. In Italia si stima che la quota di azioni presente nel portafoglio degli investitori istituzionali si aggiri nel 2006 sui 350-400 miliardi, corrispondenti a circa la metà della capitalizzazione della borsa italiana. Codeste masse di capitale azionario risultano concentrate in un numero ridotto di società, in genere le prime 50 o 100 di ciascun paese quanto a valore borsistico.

Dalle società in cui hanno investito, ovvero dai loro manager, gli investitori istituzionali pretendono soprattutto un risultato: la massimizzazione a breve termine del valore delle azioni possedute. Essa deve generare un rendimento minimo del 15% annuo sul capitale investito, che sale al 20% nel caso dei fondi privati di investimento, i private equity funds. Da simili attese e pretese il comportamento dei manager è stato stravolto: anziché alla produzione di un elevato valore aggiunto a lungo termine, ottenuto producendo beni e servizi, essi vengono spinti ad accrescere soprattutto il valore di mercato a breve termine delle società che dirigono. Incentivati in questo anche dai compensi astronomici, pari a 400-500 volte un salario medio, che essi riescono ad ottenere dalle società che dirigono, sotto forma di stipendi, opzioni sulle azioni,  “paracadute d’oro” e altri benefits.

Allo scopo di soddisfare simili richieste i manager hanno proceduto ad una riorganizzazione globale del processo produttivo controllato dalle loro imprese.
In primo luogo hanno immensamente frazionato nello spazio la catena di creazione del valore, scomponendola mediante il meccanismo degli appalti e sub-appalti di fornitura in un gran numero di anelli distribuiti per il mondo. Gran parte delle delocalizzazioni osservate in Usa e nella Ue sono state generate dalla costruzione di tale meccanismo.   Così facendo i manager possono individuare in tempo reale i singoli anelli nei quali la produzione di valore appare loro insufficiente, non tanto in assoluto quanto a paragone di imprese concorrenti, e quindi procedere a sostituirli rapidamente con altri. In secondo luogo hanno cercato di approssimarsi il più possibile, nell’organizzazione dell’impresa, all’ideale della impresa virtuale. Questa è un’impresa che nel centro di programmazione e controllo delle sue attività industriali ha un numero limitatissimo di dipendenti, talora poche centinaia, mentre dette attività sono materialmente svolte da migliaia di imprese, con decine o centinaia di migliaia di dipendenti, collegate tra loro da una rete che prima ancora di essere fisica, ossia sorretta dalle tecnologie della comunicazione, vuol essere esclusivamente una rete di contratti commerciali stipulabili o rescindibili in ogni momento.  In effetti il nuovo modello di impresa vede in questa unicamente un nesso di contratti. La concezione istituzionale o comunitaria dell’impresa è stata posta categoricamente in disparte.

Alla forma di organizzazione giuridico-telematica proprio la Enron, distributore di servizi energetici, dovette il suo straordinario successo negli anni ’90, quando divenne una delle prime sette società del mondo come valore di mercato. La stessa organizzazione, messa in piedi al fine esplicito di creare valore azionario nel più breve tempo possibile, fu anche la causa del suo improvviso collasso all’inizio degli anni 2000. Di certo quest’ultimo fu prodotto anche dalla disonestà irresponsabile dei top manager, non senza il contributo fattivo di revisori dei conti, analisti finanziari e legali delle società coinvolte.  Ai nostri fini va tuttavia sottolineato che in misura prevalente fu l’organizzazione dissennata, sebbene glorificata a lungo, in precedenza, sia dai media che da molti accademici, a forzare i manager in questione a diventare irresponsabili e disonesti.

I disastri tipo Enron sono stati decine negli Stati Uniti. Per l’Europa basterà ricordare i casi Vivendi del 2002 (12 miliardi di euro di debiti venuti alla luce  da un giorno all’altro) e Parmalat del 2003 (20 miliardi di debiti obbligazionari non ripagabili). Benché ciascuna società abbia una sua storia particolare, in tutti questi casi di collasso finanziario le cause profonde sono analoghe. Le riassume così un giurista americano, Lawrence E. Mitchell: “La radice del problema è la struttura stessa della società per azioni. [Essa] incoraggia i manager a massimizzare il prezzo delle azioni, e lo fa limitando la loro libertà di agire responsabilmente e moralmente. Il risultato è un comportamento immorale. [Esso] ha effetti specialmente perniciosi sui gruppi estranei alla struttura societaria tradizionalmente intesa, il che vuol dire tutti quelli che non fanno parte degli azionisti o dei manager.” (cito dal suo Corporate irresponsibility. America’s newest export, Yale 2001, p. 3).

In anni recenti si sono avute molte iniziative in sede ONU, Ocse, e Commissione Europea al fine di accrescere la cosiddetta “responsabilità sociale dell’impresa”.  Esse fanno riferimento implicito o esplicito agli scandali societari degli anni ’90 e dei primi anni 2000. Tuttavia codeste iniziative trascurano quasi completamente le cause strutturali del restringimento dell’orizzonte decisionale delle grandi imprese e della loro concentrazione sui soli interessi degli azionisti. Così come non vi è traccia delle medesime cause nell’impianto del provvedimento legislativo volto alla tutela del risparmio che è stato varato nel 2005 dal Parlamento italiano.

Per contro gli argomenti sopra riassunti portano a concludere che soltanto una riforma giuridica delle strutture di governo dell’impresa, la quale abbracci sia l’opportunità di addivenire a più estese pratiche di responsabilità economica e sociale da parte delle imprese, sia la necessità di coinvolgere in esse – in vista del loro peso -  gli investitori istituzionali, permetterebbe di incentivare  l’adozione di modelli societari di gestione nuovamente orientati alla creazione di valore aggiunto a lungo periodo piuttosto che di mero valore azionario a breve. Nonché orientati ad una maggior considerazione degli interessi di tutti coloro che in una impresa hanno “una posta in gioco” (che è quel che significa il termine onnipresente nelle teorie dell’impresa, quanto di poco peso nelle sue decisioni, di stakeholder).

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