Agire in modo responsabile, per un’impresa, significa  tenere conto delle conseguenze economiche, sociali, ambientali, che  le sue attività possono avere a carico di  vari soggetti, al di là dei suoi proprietari e azionisti: dipendenti, comunità  territoriali, risparmiatori, fornitori, piccole imprese dei sistemi produttivi locali.  L’impresa irresponsabile è il suo contrario: mette in primo piano gli interessi  degli azionisti, con particolare riguardo ai detentori delle quote maggiori, e  ignora gli interessi di ogni altro soggetto. Tale comportamento non è dovuto a opzioni  personali dei manager: è il comportamento cui sono tenuti dal nuovo modello di  impresa che si è affermato dai primi anni 90 in poi, nonché dalla volontà dei principali  azionisti, tra i quali predominano oggi gli investitori istituzionali. 
                              
Da un lustro circa i comportamenti irresponsabili in  campo finanziario d’un certo numero di manager di grandi società fanno notizia,  in Italia come in altri paesi. Sono a tutti note le vicende bancarie  dell’estate-autunno 2005.  A fine 2005 si  è avuto il rinvio a giudizio d’un folto gruppo di manager e di azionisti della Cirio,  il cui collasso risale all’inizio del 2003.  Sotto processo sono attualmente i principali manager della Parmalat,  un crac avvenuto alla fine dello stesso anno,  di dimensioni quindici volte superiori a quello Cirio.  Negli Stati Uniti hanno fatto scalpore le  vicende giudiziarie, con relative condanne a pesanti pene detentive dei loro  top manager,  della Enron (fallita nel 2001), della WorldCom  (colosso delle telecomunicazioni fallito nel 2002), della Adelphia  Communications. 
Tutti questi top manager sono stati accusati d’avere  scientemente falsificato i bilanci delle società di cui erano a capo,  dichiarando profitti inesistenti od occultando perdite per miliardi di euro o  di dollari. Per colpa loro investitori istituzionali e piccoli risparmiatori  hanno subito perdite per centinaia di miliardi, a causa del crollo del valore  borsistico delle rispettive società. La fiducia collettiva nei mercati di borsa  e nella corretta gestione delle imprese è stata drammaticamente scossa.  Appare quindi necessario, si è quasi  unanimemente affermato da noi come in Usa, rafforzare le norme di legge e i  dispositivi di controllo idonei ad impedire che gli alti dirigenti si  comportino in modo irresponsabile. Negli Stati Uniti ciò è stato fatto con la  legge Sarbanes-Oxley, rapidamente elaborata e approvata dal Congresso nel 2002,  pochi mesi dopo il collasso della Enron. Da queste vicende si è tratta la  conclusione che il sistema delle grandi imprese è fondamentalmente sano, e  possiede entro di sé gli anticorpi per combattere presto e con efficacia le  eventuali devianze di qualche sua parte. Basta che la legge stimoli l’attività  degli anticorpi.
Simile conclusione si presta a varie obiezioni.
La  principale essendo che una interpretazione dei disastri societari degli ultimi  anni, centrata sulla esclusiva responsabilità personale dei manager, appare  appropriata in superficie, ma nel fondo è gravemente fuorviante. In quanto  concentra l’attenzione dei media, della politica e del potere giudiziario sul  solo campo dei meccanismi finanziari, e sulla condotta irresponsabile dei  dirigenti, la distoglie dall’analisi 

delle cause strutturali che favoriscono  tale condotta. Affermare ciò, è ovvio, non vale minimamente a giustificare la  condotta stessa. Il punto critico non sta nella eventuale 
a-normalità della condotta dei dirigenti, quanto nella aberrante  definizione delle strategie industriali   che da una quindicina d’anni vengono considerate 
normali nel governo delle imprese, e che i manager sono per un  verso forzati, per un altro incentivati a mettere in pratica.E’ questo  l’argomento che ho sviluppato nel libro 
L’impresa  irresponsabile (Einaudi 2005).
 
Al fine di spiegare il comportamento odierno della  maggior parte dei manager occorre far riferimento al nuovo modello di impresa  cui molti di essi sono stati istruiti, e che hanno l’obbligo di mettere in  pratica.  Alla luce di tale modello  il  governo delle grandi imprese deve  avere come  missione esclusiva la  massimizzazione del valore per gli azionisti. Grazie alla sua applicazione ogni  altro portatore di interesse è di fatto scomparso dall’orizzonte decisionale delle  corporations. Si è trattato di una modificazione della concezione stessa  dell’impresa che è stata teorizzata sin dagli anni ’80 da agguerriti plotoni di  economisti.  Peraltro essa ha potuto  affermarsi su vasta scala specialmente a causa dell’avvento al potere, nel  corso degli anni ’90, degli investitori istituzionali: fondi pensione (in  specie quelli anglosassoni), fondi di investimento, compagnie di assicurazione.
In un solo decennio, il totale degli attivi finanziari  – azioni, obbligazioni, derivati ecc. – gestiti da tali enti si è moltiplicato  per tre in Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, e per sei in Italia,  che era partita da valori iniziali più bassi. Aggiungendo ad essi i capitali  degli analoghi investitori di Canada, Giappone, Olanda, Svizzera, il volume di  capitali controllati e gestiti dagli investitori istituzionali superava già nel  2000 i 30.000 miliardi di dollari. Questa cifra corrispondeva in quell’anno,  come ordine di grandezza, al Pil di un anno del mondo intero. Nel 2004 essa lo  ha ampiamente superato: il Pil del mondo ha toccato i 41.000 miliardi di  dollari, mentre gli attivi degli investitori istituzionali (nei soli paesi 
Ocse sono saliti a 45.000 miliardi di dollari.  Si noti che, in complesso, gli investitori istituzionali sono nel mondo decine  di migliaia, ma la massa dei loro capitali appare concentrata  in poche centinaia di essi. Sono questi enti  finanziari i soggetti reali che danno corpo alla cosiddetta “volontà” o  “giudizio” dei mercati di cui parlano con deferenza le cronache economiche dei  quotidiani. Mai tanto potere economico e finanziario è apparso concentrato in  così poche persone. 
Nonostante si tratti d’una forma di proprietà vicaria,  ovvero per procura, poiché i loro manager amministrano capitali non loro, gli  investitori istituzionali sono diventati di fatto i maggiori proprietari delle  grandi imprese. Sebbene ciascuno di essi non possegga in genere più del 2% del  capitale di una singola società, in molti paesi gli investitori istituzionali  detengono nell’insieme una quota del capitale azionario in circolazione che  varia dal 40% in Francia, al  75% nel  Regno Unito. In Italia si stima che la quota di azioni presente nel portafoglio  degli investitori istituzionali si aggiri nel 2006 sui 350-400 miliardi,  corrispondenti a circa la metà della capitalizzazione della borsa italiana.  Codeste masse di capitale azionario risultano concentrate in un numero ridotto  di società, in genere le prime 50 o 100 di ciascun paese quanto a valore  borsistico. 
Dalle società in cui hanno investito, ovvero dai loro  manager, gli investitori istituzionali pretendono soprattutto un risultato: la  massimizzazione a breve termine del valore delle azioni possedute. Essa deve  generare un rendimento minimo del 15% annuo sul capitale investito, che sale al  20% nel caso dei fondi privati di investimento, i 
private equity funds. Da simili attese e pretese il comportamento  dei manager è stato stravolto: anziché alla produzione di un elevato valore  aggiunto a lungo termine, ottenuto producendo beni e servizi, essi vengono  spinti ad accrescere soprattutto il valore di mercato a breve termine delle  società che dirigono. Incentivati in questo anche dai compensi astronomici,  pari a 400-500 volte un salario medio, che essi riescono ad ottenere dalle  società che dirigono, sotto forma di stipendi, opzioni sulle azioni,  “paracadute d’oro” e altri benefits.
Allo scopo di soddisfare simili richieste i manager  hanno proceduto ad una 
riorganizzazione  globale del processo  produttivo controllato dalle loro imprese. 
In primo luogo hanno immensamente frazionato nello spazio  la catena di creazione del valore, scomponendola mediante il meccanismo degli  appalti e sub-appalti di fornitura in un gran numero di anelli distribuiti per  il mondo. Gran parte delle delocalizzazioni osservate in Usa e nella Ue sono state  generate dalla costruzione di tale meccanismo.    Così facendo i manager possono individuare in tempo reale i singoli  anelli nei quali la produzione di valore appare loro insufficiente, non tanto  in assoluto quanto a paragone di imprese concorrenti, e quindi procedere a  sostituirli rapidamente con altri. In secondo luogo hanno cercato di  approssimarsi il più possibile, nell’organizzazione dell’impresa, all’ideale  della 
impresa virtuale. Questa è  un’impresa che nel centro di programmazione e controllo delle sue attività  industriali ha un numero limitatissimo di dipendenti, talora poche centinaia,  mentre dette attività sono materialmente svolte da migliaia di imprese, con  decine o centinaia di migliaia di dipendenti, collegate tra loro da una rete  che prima ancora di essere fisica, ossia sorretta dalle tecnologie della  comunicazione, vuol essere esclusivamente una rete di contratti commerciali  stipulabili o rescindibili in ogni momento.   In effetti il nuovo modello di impresa vede in questa unicamente un 
nesso di contratti. La concezione  istituzionale o comunitaria dell’impresa 

è stata posta categoricamente in  disparte.
 
Alla forma di organizzazione giuridico-telematica  proprio la Enron,  distributore di servizi energetici, dovette il suo straordinario successo negli  anni ’90, quando divenne una delle prime sette società del mondo come valore di  mercato. La stessa organizzazione, messa in piedi al fine esplicito di creare  valore azionario nel più breve tempo possibile, fu anche la causa del suo  improvviso collasso all’inizio degli anni 2000. Di certo quest’ultimo fu  prodotto anche dalla disonestà irresponsabile dei top manager, non senza il  contributo fattivo di revisori dei conti, analisti finanziari e legali delle  società coinvolte.  Ai nostri fini va  tuttavia sottolineato che in misura prevalente fu l’organizzazione dissennata,  sebbene glorificata a lungo, in precedenza, sia dai media che da molti  accademici, a forzare i manager in questione a diventare irresponsabili e disonesti. 
I disastri tipo Enron sono stati decine negli Stati  Uniti. Per l’Europa basterà ricordare i casi Vivendi del 2002 (12 miliardi di  euro di debiti venuti alla luce  da un  giorno all’altro) e Parmalat del 2003 (20 miliardi di debiti obbligazionari non  ripagabili). Benché ciascuna società abbia una sua storia particolare, in tutti  questi casi di collasso finanziario le cause profonde sono analoghe. Le  riassume così un giurista americano, Lawrence E. Mitchell: “La radice del  problema è la struttura stessa della società per azioni. [Essa] incoraggia i  manager a massimizzare il prezzo delle azioni, e lo fa limitando la loro  libertà di agire responsabilmente e moralmente. Il risultato è un comportamento  immorale. [Esso] ha effetti specialmente perniciosi sui gruppi estranei alla  struttura societaria tradizionalmente intesa, il che vuol dire tutti quelli che  non fanno parte degli azionisti o dei manager.” (cito dal suo 
Corporate irresponsibility. America’s newest  export, Yale 2001, p. 3). 
In anni recenti si sono avute molte iniziative in sede 
ONU, Ocse,  e 
Commissione Europea  al fine di accrescere la cosiddetta “responsabilità sociale dell’impresa”.  Esse fanno riferimento implicito o esplicito  agli scandali societari degli anni ’90 e dei primi anni 2000. Tuttavia codeste  iniziative trascurano quasi completamente le cause strutturali del restringimento  dell’orizzonte decisionale delle grandi imprese e della loro concentrazione sui  soli interessi degli azionisti. Così come non vi è traccia delle medesime cause  nell’impianto del provvedimento legislativo volto alla tutela del risparmio che  è stato varato nel 2005 dal 
Parlamento italiano. 
Per contro gli argomenti sopra riassunti portano a  concludere che soltanto una riforma giuridica delle strutture di governo  dell’impresa, la quale abbracci sia l’opportunità di addivenire a più estese  pratiche di responsabilità economica e sociale da parte delle imprese, sia la  necessità di coinvolgere in esse – in vista del loro peso -  gli investitori istituzionali, permetterebbe  di incentivare  l’adozione di modelli  societari di gestione nuovamente orientati alla creazione di valore aggiunto a  lungo periodo piuttosto che di mero valore azionario a breve. Nonché orientati  ad una maggior considerazione degli interessi di tutti coloro che in una  impresa hanno “una posta in gioco” (che è quel che significa il termine  onnipresente nelle teorie dell’impresa, quanto di poco peso nelle sue decisioni,  di 
stakeholder).