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Perché per parlare di etnografia d’impresa
dobbiamo parlare di antropologia del lavoro

di Sara Roncaglia


 
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Due esempi di etnografia d’impresa
Il caso della Barilla di Melfi
Convegni sul tema
Progetti in corso
Etnografia d’impresa e antropologia del lavoro

Due esempi di etnografia d’impresa

Tra il 1999 e il 2001 il giovane documentarista Wang Bing riprende con una camera Dv la morte del complesso industriale del distretto di Tiexi nella città di Shenyang, capoluogo della regione del Liaoning, nel Nordest della Cina. Costruito durante l’occupazione giapponese nel 1934 e nazionalizzato dopo la Seconda guerra mondiale, è stato il più antico e imponente centro manifatturiero del Paese, con una popolazione impiegata di circa un milione di lavoratori. Dalla piena attività del periodo postbellico fino al 1980 le fabbriche sono state il centro vivo di un’intensa produzione, fino al progressivo collasso all’inizio degli anni novanta, sotto la spinta della globalizzazione e a seguito dell’introduzione del mercato in quello che, fino a pochi anni prima, era ancora un sistema assai legato all’economia di stampo socialista. In West of the Tracks (titolo originale: Tiexi qu), attraverso una meticolosa etnografia visiva, Wang racconta il doloroso passaggio dei lavoratori del complesso industriale dalla condizione di “aristocrazia operaia” di cui godevano nella Cina maoista a quello di “forza lavoro in esubero”, destinata alla progressiva liquidazione professionale e identitaria. Wang descrive con sequenze lente (il film dura nove ore), che rifuggono da ogni tentazione esotica ed estetizzante, la vita di questi operai e il panorama industriale che li circonda: altoforni, fabbriche di cavi e impianti siderurgici in dismissione. Il filo conduttore della narrazione sono le rotaie del treno, che fungono a un tempo da limite della zona industriale e da binario per la videocamera dell’etnografo. Partendo dalla decadenza dei luoghi, la sua etnografia visiva ci conduce lentamente nelle vite ormai senza lavoro del personale, uomini e donne che impariamo a conoscere in silenzio e rispetto alle cui esperienze ci sembra svanire ogni distanza culturale: la loro vita è la nostra vita, la loro perdita è la nostra perdita.
Quella delle dismissioni delle grandi imprese statali è una vicenda che riguarda da vicino anche l’Italia ed è stata narrata e compresa grazie agli strumenti dell’etnografia. Si consideri per esempio il caso delle Ferrovie dello Stato che, a partire dagli anni ottanta, hanno vissuto un mutamento organizzativo e manageriale profondo: prima la trasformazione da azienda di Stato in ente (1985), poi quella da ente a società per azioni (1990) e infine la costituzione di una holding industriale, che ha portato allo “spacchettamento” del precedente corpo unico delle ferrovie (1999-2000), in particolare separando la gestione dell’infrastruttura – Rfi– dalla gestione dell’impresa di trasporto – Trenitalia. A metà degli anni duemila la metabolizzazione di queste trasformazioni non poteva ancora dirsi conclusa: tanto a livello culturale e organizzativo, quanto al livello delle pratiche del lavoro, quanto infine per l’impatto che hanno avuto sulla qualità del servizio offerto alle diverse categorie di utenti del trasporto ferroviario. Erano del resto molti gli indizi di smarrimento della popolazione lavorativa delle Fs, ed erano parallelamente molti i gradi di consapevolezza delle criticità di questa fase di lunga transizione. Né la coscienza della delicatezza di quei passaggi poteva sfuggire alla direzione delle risorse umane delle Ferrovie, soprattutto a livello di gruppo.
Da questa coscienza è nata la sollecitazione a condurre una ricerca etnografica, commissionata dalla Direzione generale di gruppo delle risorse umane di Ferrovie dello Stato (Dggru) e svoltasi nel 2006, che ha avuto come esito un corposo rapporto destinato ad uso interno, dal titolo: Uomini e treni. Una ricerca sulla Direzione territoriale Piemonte della Divisione trasporto locale di Trenitalia: etnografia e lettura sistemica. Il gruppo di studiosi che ha lavorato a questa ricerca è stato costituito da Augusto Carena, ingegnere gestionale, consulente e formatore, da Roberta Garruccio, ricercatore presso il Dipartimento di scienze della storia e della documentazione storica dell’Università degli studi di Milano, e da Sara Roncaglia, dottore di ricerca in scienze politico sociali e psicologiche, con il coordinamento scientifico di Giulio Sapelli, docente di storia economica presso l’Università degli studi di Milano, da sempre attento all’analisi culturale delle organizzazioni. L’obiettivo generale era quello di mettere a fuoco l’impatto delle trasformazioni istituzionali, organizzative e lavorative sulle persone di Fs, interrogando i saperi, le pratiche, le strategie messi in atto dai testimoni per comprendere le trasformazioni della loro azienda.
La ricerca si è basata su circa 30 interviste in profondità (a un gruppo di ferrovieri quasi interamente maschile), concepite e realizzate come “autobiografie del lavoro”. Un numero così limitato di unità d’indagine non può certamente presentarsi come un campione statisticamente rilevante ma le interviste hanno comunque puntato a coprire in modo ragionato l’intero organigramma della divisione territoriale: dal responsabile del suo vertice, alla direzione commerciale, alla direzione vendite, alla direzione di produzione. Il segmento organizzativo più indagato è stato proprio quello della produzione: scendendo lungo la gerarchia, dalle posizioni apicali verso gli impianti, è stato ascoltato e videoregistrato il personale di bordo, il personale della sala operativa, il personale di macchina e il personale manovra.
Questi due esempi di etnografie d’impresa testimoniano la particolarità dello sguardo e la peculiare efficacia narrativa della pratica etnografica. Al centro di entrambi, infatti, ci sono le parole e i silenzi delle persone, che ci impongono un ascolto.

Il caso della Barilla di Melfi

Un esempio ulteriore di quanto l’etnografia possa favorire processi di conoscenza e di riflessione nel mondo dell’impresa è dato da un’esperienza che a inizio 2008 ha coinvolto lo stesso gruppo di ricerca che aveva realizzato l’indagine sulle Ferrovie dello Stato. In questo caso la ricerca ha avuto per oggetto uno stabilimento produttivo della Barilla localizzato a Melfi, ed è sfociata in un rapporto dal titolo: Io erano anni che aspettavo. Impresa, lavoro e cultura in uno stabilimento del mezzogiorno d’Italia: la Barilla di Melfi. La frase usata per il titolo, tratta da una riflessione di un operaio lucano, finisce in realtà con: «... che qualcuno ci venisse a studiare!». L’etnografia d’impresa si configura infatti spesso come un bisogno, una richiesta di ascolto che trova nell’approccio autobiografico la sua espressione più toccante e intensa. Lo spunto per la realizzazione di questo lavoro era la ricorrenza dei vent’anni della fondazione dello stabilimento Barilla-Bakery di San Nicola di Melfi, inaugurato nel 1987, per la produzione di pane, merendine, biscotti e fette biscottate (comunemente chiamati prodotti bakery) e l’oggetto della ricerca era la ricostruzione della storia e la descrizione del funzionamento attuale di questo sito industriale, per comprendere le caratteristiche che ne fanno un impianto di eccellenza e per capire chi sono e che cosa fanno le persone che lo fanno funzionare.
I principali esiti di tale lavoro collettivo sono stati due: una descrizione di come funziona oggi un sito manifatturiero e un’interpretazione antropologica dell’interazione delle diverse culture presenti in azienda. I motivi per cui lo stabilimento di Melfi funziona sono infatti riconducibili, da un lato, alla riproposizione, e alla ricostruzione in loco, della “cultura aziendale Barilla” ma, dall’altro, al suo incrocio con le rappresentazioni collettive del lavoro prevalenti nel contesto specifico di Melfi, nonché ai modi in cui esse si sono poi trasformate nel tempo. La nuova “cultura Barilla” di Melfi si è poi dovuta confrontare con il mercato nazionale, una realtà con cui le persone di Melfi sono costantemente in contatto, soprattutto dopo che, a seguito della crisi dei primi anni novanta, la domanda dei prodotti da forno si è fatta molto più volatile. Il consumatore assume così un peso che nella consapevolezza dei lavoratori prima non aveva: diventa una figura di cui gli operai di Melfi tengono conto nella loro quotidianità professionale. Come le persone, anche i luoghi della produzione (cioè gli stabilimenti) di fronte alle stringenze di un mercato complesso e mutevole, hanno subito una trasformazione all’interno dell’organizzazione complessiva dell’impresa, attraverso l’incorporazione progressiva di significativi investimenti e di nuove tecnologie. La stessa “cultura Barilla” si è ibridata con la specifica cultura locale, riconducibile ad alcuni elementi chiave del contesto lucano: un’attitudine alla vita austera, segnata da generazioni dalla fatica del lavoro bracciantile e improntata a un’etica del sacrificio, si è trasformata in un’attitudine a investire di senso il proprio lavoro. Il riconoscimento del direttore d’azienda come “capo”, ha permesso alla direzione di incontrare meno resistenze che non altrove nell’introdurre la disciplina del lavoro industriale in una comunità che non l’aveva sperimentata prima in questa forma. La prossimità culturale e temporale con il mondo contadino, anzi bracciantile, e il senso del tutto speciale attribuito a un lavoro che ha a che fare con il cibo, hanno poi ulteriormente aiutato a metabolizzare il passaggio dalla campagna alla fabbrica. Infine il ruolo della famiglia e la sua progressiva ridefinizione e riattualizzazione, per esempio attraverso il lavoro femminile e la flessibilità di tale lavoro, hanno definito nuovi equilibri tra casa e fabbrica e tra lavoro in fabbrica e lavoro nei campi.

Convegni sul tema

All’importanza dell’etnografia d’impresa e dell’inchiesta sociale sul lavoro sono stati recentemente dedicati due convegni importanti, tenutisi nel novembre 2010 a Poggibonsi e nel maggio 2011 a Venezia. Il primo, dal titolo Antropologia del distretto industriale: culture del lavoro, famiglie, politiche a Poggibonsi e altrove, nelle sue diverse sessioni ha proposto un’interpretazione storico-antropologica dell’impresa, partendo dalla memoria locale per dare un modello ampio e complesso della cultura d’impresa. Non è un caso che il punto di partenza del convegno fosse il ruolo delle famiglie, della politica e del lavoro nel passaggio dalla mezzadria alla società industriale in Toscana. Quest’affondo locale ha consentito di allargare lo sguardo sul paesaggio industriale italiano contemporaneo, con contributi sulla diffusione dell’imprenditorialità in Brianza (di Simone Grezzi), sul distretto della sedia nel Friuli Orientale (di Claudio Lorenzini), sulla realtà delle operaie metalmeccaniche lucane (di Fulvia D’Aloisio), sulle attività tessili nel Sud Italia (di Valeria Siniscalchi), e infine sul ruolo degli imprenditori italiani in Romania (di Cristina Papa). Il secondo seminario, Con le orecchie dritte: percepire e registrare il cambiamento sociale. Ascoltare il lavoro, Italia 1961-2011, ha ripercorso l’elaborazione di alcuni classici dell’inchiesta sociale comparsi durante il miracolo economico.

Progetti in corso

Vorrei tralasciare questa pur importante rivisitazione dei classici per citare invece la presentazione di due lavori di ricerca recenti, condotti rispettivamente da Vladimiro Soli e da Marina Bergamin con Chiara Bonato. Il primo propone uno studio di sociologia del lavoro negli stabilimenti del gruppo Aia, mettendo in evidenza l’interazione tra gli operai autoctoni veneti e i migranti. Il secondo presenta il caso di una nuova company town, quella nata a Breganze grazie all’azienda di abbigliamento casual Diesel, e della diversificazione occupazionale che ha innescato localmente nel corso del tempo.
Infine, chi scrive sta coordinando una ricerca etnografica, commissionata dall’Archivio di etnografia e di storia sociale della Regione Lombardia in collaborazione con il Consorzio cantiere Cuccagna, sugli imprenditori agricoli del Parco agricolo Sud di Milano. Affiancare il tema dell’etnografia d’impresa all’agricoltura può sembrare inusuale, ma a partire dal secondo dopoguerra, i processi di meccanizzazione e, sembra un ossimoro, di “industrializzazione agricola”, hanno profondamente modificato il ruolo dell’agricoltore, creando un nuovo soggetto sociale ed economico. Alla cultura tradizionale contadina, e a chi la viveva in prima persona, si sono sovrapposti modelli di culture d’impresa che ne hanno profondamente modificato gli assetti e le identità.

Etnografia d’impresa e antropologia del lavoro

Gli esempi riportati, tratti in parte dall’esperienza diretta di chi scrive, ci rammentano che l’etnografia è oggi uno dei modi più utilizzati e utili per descrivere e comprendere i cambiamenti nel mondo del lavoro e dell’impresa. Ma sottolineano anche l’importanza della sensibilità antropologica applicata al lavoro, come la modalità gnoseologica forse più adatta a valorizzare l’apporto della pratica etnografica. L’etnografia è stata a lungo messa al servizio di diverse discipline riconducibili alle scienze sociali per studiare l’impresa e il lavoro: l’idea stessa che ci sia una cultura nelle organizzazioni – idea affermatasi negli anni ottanta del novecento – è fortemente debitrice della sociologia del lavoro degli anni cinquanta e sessanta. Tuttavia la vera “casa” dell’etnografia del lavoro resta a mio parere l’antropologia, che dalle narrazioni o auto-narrazioni, biografiche o meno, delle fonti orali trae la sostanza del suo oggetto di studio: la cultura. Ovvero le culture del lavoro, intese come dispositivi di attribuzione e costruzione di senso indispensabili alla riproduzione del soggetto lavoratore in un’epoca il cui immaginario è dominato dal consumatore. Mai come in questi ultimi decenni c’è bisogno di un approccio comparativo e di antropologi al lavoro sul lavoro: perché non sta cambiando solo l’organizzazione, il sistema, l’articolazione delle gerarchie di potere all’interno del mondo del lavoro, ma la cultura stessa del lavoro, l’universo simbolico cui fa riferimento, gli elementi di senso che le persone vi ritrovano per capire chi sono e qual è il loro ruolo sociale.
Nel 2010 è uscito uno studio significativo in proposito, curato da Silvia Vignato, intitolato Soggetti al lavoro. Un’etnografia della vita attiva nel mondo globalizzato, in cui si analizza il significato individuale dell’esperienza professionale in contesti geografici, temporali e culturali diversi tra loro. Come scrive nell’introduzione la Vignato, «si tratta di studiare la relazione che intercorre fra il lavoro esercitato, desiderato o assente, l’ideologia del lavoro a cui il soggetto è esposto e sottoposto, i rapporti di potere nei quali è implicato e la costruzione psichica, affettiva e immaginaria di sé come soggetto autonomo della propria vita anche quando questa costruzione è parziale, discontinua, conflittuale, minacciosa e greve di sofferenza». Credo che il compito principale di una ricerca etnografica d’impresa sia ben sintetizzato dalla citazione precedente e contempli il rovesciamento di ogni prospettiva ipostatizzante. Rispetto all’egemonia dei business studies di matrice economicistica e ai loro modelli di rappresentazione della realtà costruiti spesso a discapito del realismo (almeno per quanto riguarda quelli che si caratterizzano per la persistenza di assunti comportamentisti, positivisti, monoculturali ed etnocentrici), l’etnografia d’impresa si pone metodologicamente ed epistemologicamente agli antipodi. Quest’ultima lascia infatti modo agli intervistati di fare emergere problemi, criticità e sofferenze così come essi ne fanno quotidianamente esperienza e di esprimerli in termini propri. Mette una certa quota di potere nelle mani dell’attore sociale, sovvertendo, almeno momentaneamente, le gerarchie. Ed infine sortisce maggior ricchezza di risposte alle domande poste, ed un esito finale di ricerca migliore, anche per il solo fatto che le occasioni in cui le persone possono parlare a lungo del proprio lavoro a un ascoltatore attento e interessato sono tutto meno che frequenti.

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