L’unicità della Olivetti
  
                              L’impiego delle fonti orali
  
                                Testimonianze dentro Olivetti, dal tema non si esce mai
                                
                                  
                              
                              L’unicità della Olivetti 
                              
                              I titoli servono per portare, senza equivoci,  dentro l’argomento e le sue pertinenze. 
Così è per l’accurata raccolta di  testimonianze orali sul senso e sulla pratica del lavorare in Olivetti edita da  Bruno Mondadori sotto il titolo Uomini  e lavoro alla Olivetti.   Non è occorso neppure l’espediente chiarificatore di un  sottopancia (didascalia). Di meglio era forse impossibile fare, anche se la con-giunzione  di mezzo tra «uomini» e «lavoro» distingue due termini che le pagine del libro  e le parole dei testimoni lasciano fluire in continuo tra umanità e lavoro, pregio  e unicità dell’Olivetti   di Adriano. Lì dove Giulio Sapelli (nella post-fazione) rintraccia «una  produzione mitologica … indispensabile allorché si voglia inserire in una  cornice culturale la lettura e la meditazione delle storie di vita» (p. 607)  raccolte nel volume. Mondi vitali e valori condivisi, svenduti come miti  d’oggi, prosegue Sapelli, nella recente dissipazione di un patrimonio di lealtà  organizzativa di cui danno memoria Francesco Novara e Renato Rozzi: «Se in  altre aziende il lavoratore si confondeva in una massa indifferenziata, in  Olivetti egli era una persona con una vita lavorativa ben individuata». 
1934: ai coevi stereotipi produttivi stilizzati nei raptus di Charlie Chaplin  in «Tempi moderni», la Chevrolet rispondeva tempestivamente producendo il  filmato Master hands (http://www.archive.org/details/prelinger). 
                            
I primi fotogrammi vedevano la progressiva messa a  fuoco di sagome senza volto: dalla massa indistinta di tute vivificate, emergeva  man mano la fisionomia degli uomini diretti in fabbrica. Per quaranta minuti  segue poi un’accurata prospezione dell’intero processo produttivo, dal primo  interruttore alzato all’alba per produrre l’energia che risveglia lo  stabilimento, sino alla vettura finita e rifinita che si allontana per il  collaudo. Il tutto per dimostrare come la catena di montaggio non fosse altro  che sequenza di un processo produttivo in grado di salvaguardare, al proprio  fianco, professionalità, competenze, autorità del lavoro: le permanenze  artigiane nel fordismo rampante oltre oceano. Invero è poi la brutalità delle  immagini sulla catena, tra uomini e automatismi, a restare nei nostri occhi: la  rivincita di Chaplin. Ben oltre la volontà di chi il film ha prodotto, uomini e  lavoro disgiunti per senso, congiunti per servitù. Contro l’indistinto,  l’emersione dei volti pone allo storico le stesse domande che 

(ascoltate o  meno) poneva al datore di lavoro.
 Nel dare voce a venticinque testimoni Roberta Garruccio mette a fuoco «la  politica del personale che ha caratterizzato la grande stagione (e la grande  eccezione) dell’Olivetti … una politica del personale che puntava alla gestione  e allo sviluppo delle persone più che a preoccuparsi delle tecnicalità e degli  specialismi della funzione oggi chiamata “risorse umane”» (p. 11). Nell’Italia  del dopoguerra la sala dove scorreva il filmato dell’Olivetti non aveva altro  in programmazione. Gli attori che si raccontano in questo libro ci spiegano bene  l’anima di quel genere unico. L’invettiva «day after» di Francesco Novara (una  paginetta a inizio volume) è una duplice chiamata di responsabilità: per chi ha  scelto di sacrificare un patrimonio imprenditoriale ponendo di fatto fine alla  storia dell’azienda e per lo storico consapevole delle responsabilità civili  insite nel ricostruire la memoria. Ma traccia anche una possibile via per il  necessario riscatto tra uomo e lavoro: «A un mondo del lavoro umiliato in una  società lacerata e disorientata, succube delle vicende aleatorie di un’economia  finanziarizzata, si rivolge il coro di queste testimonianze. Esse ricordano il  valore permanente delle ragioni di quel successo d’impresa: la responsabilità e  capacità di costante innovazione e anticipazione, realistica e audace,  razionale e immaginativa, votata all’eccellenza dei prodotti, alla qualità  della vita lavorativa, all’elevazione della vita sociale». Contro la dispersione  perpetrata a fine Novecento, l’affilata penna di Sapelli diventa bisturi, senza  timore di incidere i nomi nella transizione dalla lealtà organizzativa degli  uomini alle indecenti sopravvivenze degli ossequi senza fedeltà quando le  imprese rinunciano a intraprendere. Il messaggio del libro va oltre. Chiama in  causa l’incontro possibile della vita di lavoro (e di non lavoro) con gli stili  della nostra convivenza civile. Ci mette in gioco tutti dal momento che per dare  senso ai fatti degli uomini e delle imprese, del lavorare e dell’associarsi, le  azioni non bastano senza il richiamo «agli ideali, agli obiettivi ultimi, alle  concezioni essenziali, [dato che] ogni onesto uomo deve cercare soltanto di  portare avanti le cose in cui crede senza timori e senza baratti» (M. Romani).
                            
                            
                            
                              
                                L’impiego delle fonti orali 
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                                                          In questo  annullarsi del tempo storico le 639 pagine del libro potevano rischiare il  proprio rigore. Ben venga una post-fazione che si fa carico del tragitto tra  storia e antropologia e richiama legami indotti dalla stessa natura della fonte  quando è voce narrante in prima persona. Ma questo tragitto richiedeva fondamenta  solide nel lavoro storico, operazione ardua nell’impiego delle fonti orali  nonostante l’apprezzamento di molti ambienti scientifici (http://alpha.dickinson.edu/oha/). Basi  che non potevano venire dai testimoni. Solo l’estenuante fatica  dell’intervistatore poteva liberare dal peso delle retroazioni, delle sfumature  a perdere della memoria, della nostra incapacità a raccontare il quotidiano  quando il giorno manca delle eccezionalità che segnano la vita e il ricordo.
                              L’intervistatrice, in questo caso, ha potuto certamente contare sul  vantaggio dell’eccezionalità quotidiana del lavoro in Olivetti non meno che sull’autorità  di una memoria del lavoro non dispersa. Roberta Garruccio ha girato il Canavese  e parte del Piemonte, con qualche puntata altrove, oltre che presso il Centro  cultura d’impresa,  per raccogliere le venticinque voci. Ha dato rigore al materiale storico  prodotto dai dialoghi; ha fatto tesoro delle competenze messe a punto nelle  altre sue ricerche. Nelle pagine introduttive ha indossato le vesti dell’aedo  cieco, ha dichiarato l’ipotesi di lavoro e dipanato la tesi; consapevole, con  rigore e senza facili enfasi, della natura e dei limiti del progetto e della  sua realizzazione. Compreso l’indispensabile adattamento del parlato allo  scritto, sacrificio imposto dal supporto cartaceo che scarnifica voci e gesti  per ricostruire in altro modo la capacità comunicativa della registrazione  originaria così da rendere le pagine a stampa «intelleggibili per qualsiasi  lettore» (p. 63). Il filtro editoriale non ha per ora alternative nel dialogo  sperimentale tra carte, voci e immagini; tra archivi tradizionali e mediateche (http://www.ips.it/cinethes/mov_op.  html). Non è ancora il tempo di giungere alla meta delle voci ascoltate,  dei volti non solo immaginati, incapaci come siamo di fruire rigorosamente di  tutti i supporti della conoscenza.
                            Il corredo di note posto con accuratezza ai singoli testi è  indispensabile, così come la cronologia finale, tanto per il lettore  puntiglioso quanto come possibile ponte per l’incontro, rinviato ma prima o poi  necessario, con le documentazioni «tradizionali» in ragione di una  ricostruzione che non distingua le fonti per tipologia. Nella sua originalità,  il libro propone anche alcune dense pagine che alla cecità esterna dell’aedo  mettono gli occhi di chi era dentro la storia e non è stato estraneo alla  promozione dell’intera opera: Francesco Novara e Renato Rozzi, psicologi che  hanno operato a lungo nel Centro di psicologia Olivetti. Filtri indispensabili  per riportare le memorie individuali a quella memoria collettiva di cui si  sentono parte. Con il loro aiuto diventa più facile entrare nel merito delle  tematiche trattate: le relazioni aziendali e quelle sindacali, la produzione, la  ricerca & sviluppo, i servizi commerciali, l’alta direzione, i servizi  culturali e sociali.
                            
                            
                            
                              
                                Testimonianze dentro Olivetti, dal tema non si esce mai  
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                                                          Come dice il  Principe felice di Wilde «mi racconti cose meravigliose ma più meravigliosa di  tutto è la sofferenza di uomini e donne». A parte il genere (una sola la donna intervistata),  è cosa di meraviglia la sofferenza di quegli uomini quando vedono svuotarsi il  senso del proprio lavoro e inaridire la disciplina industriale, ridotti a  interpreti minori delle ultime trasformazioni dell’impresa in cui si erano un  tempo sentiti risorsa, umana risorsa. 
                              Il filo conduttore del libro scorre tutto dentro l’Olivetti, in  controluce leggiamo la filigrana delle trasformazioni organizzative che hanno  caratterizzato molte imprese industriali sullo scorcio del Novecento. Le  testimonianze, a maggioranza, iniziano dalla domanda «Vorrei che mi raccontasse  la sua storia in Olivetti»; poche le varianti ma sempre collocate dall’ingresso  in azienda («Come è arrivato all'Olivetti?») in poi. Solo alcuni testimoni  danno rapidamente conto di un prima, fatto di studio e di eventuali altre brevi  esperienze; qualche maggior respiro ha l’avvio di un ex-amministratore delegato  (Ottorino Beltrami) che pur doveva spiegare un handicap fisico subìto in guerra.  In un solo caso (stando al testo edito) Garruccio avvia il colloquio con un  respiro più ampio, chiede della famiglia, degli studi fatti, della scelta di entrare  in Olivetti. Poi chiude la domanda rivelando l’arcano del libro: «Non si  preoccupi di uscire dal tema, perché dal tema non si esce mai» (p. 307). Chiaro  e semplice. Come a racchiudere tutto. Che dire degli altri arcana celati nel gioco di specchi tra un dentro disciplinato  dall’organizzazione e un fuori, riflesso sfuocato dell’azienda nel risalto di ciascun  testimone con le sue scelte di vita, la sua cultura del lavoro, la ricerca di un  senso pregresso e virtuale prima di condensarlo in azienda, finalmente narrazione  vissuta di un sé già in costruzione o costruito? Queste storie dentro  l’Olivetti traguardano tutta la vita dei testimoni. Quanto era in loro di  Olivetti senza Olivetti, quanto era segnato nelle quotidianità delle famiglie e  delle appartenenze sociali, quanto era inciso nelle trame occulte della loro  generazione e dei processi culturali in cui erano immersi, quanto nel Canavese,  prospero anche per chi aveva altre radici? Condotte con maggior decisione fuori  dalla fabbrica, queste storie di vita avrebbero spiegato meglio la meraviglia  delle passioni e delle sofferenze dentro la fabbrica? In termini di metodo, la  cesoia di quella prima domanda insistente («la sua storia in Olivetti») invece  di potare in vista dei migliori frutti, ha indebolito la pianta? 
                              Si direbbe una pretesa ingestibile se non scaturisse da quanto i  testimoni hanno travasato nelle loro parole. Naturalmente ogni ipotesi di  lavoro deve darsi dei limiti, che vanno rispettati nel loro assoluto decoro  scientifico e riducono le recensioni al mero esercizio calligrafico: le buone  ipotesi di ricerca e i buoni lavori lasciano comunque il segno. Aprono, lo  sappiamo bene, su confini più ampi, non implodono nei baratri  dell’intelligenza. Ogni tematica trattata nel volume offre spunti, fa sorgere  domande, stimola riflessioni ulteriori. Occorre solo leggere queste pagine.
                            E’ una buona lettura, da adottare anche in qualche corso universitario  pertinente, per tentare di aprire un dialogo con la disattenzione prevalente in  chi, atteso a breve sul mercato del lavoro, dovrà negoziare tra identità  individuale e identità collettiva rischiando di non avere senso della storia,  di quel che è stato, nella norma o in via eccezionale. Se un libro non educa a  che serve? Verificheremo queste pagine fra un anno, dopo qualche decina di  esami. Nel timore di aver inseguito «solo» un mito.