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Raccontare l’impresa. Storie di imprenditori vicentini dal secondo dopoguerra a oggi,
a cura di D. Celetti e E. Novello, postfazione di G.L. Fontana,
Padova, Cleup, 2006, pp. 350, € 20,00
recensione di Antonio Canovi
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il testo

Raccogliere autobiografie di imprenditori per raccontare la storia dell’industrializzazione vicentina. Questo l’obiettivo che si sono posti David Celetti ed Elisabetta Novello nel corso di una ricerca uscita per la Cleup e promossa con il sostegno del Centro studi sull’impresa e sul patrimonio industriale e della Camera di Commercio di Vicenza.
Si può dire un obiettivo riuscito? Si e no, come capita di sovente in un campo di studi – la storia di impresa – cui vengono demandati compiti interpretativi vari, differenti, complessi. Provo a spiegarmi meglio. Se stiamo al titolo, Raccontare l’impresa, il volume restituisce in modo esauriente il polimorfismo della realtà vicentina. Nelle storie raccolte ritroviamo una varietà merceologica che non ha forse pari in Italia: concerie, prodotti lapidei, metalmeccanica, tessile abbigliamento, oreficeria, alimentare e ancora dell’altro. Ci sono fondamentalmente due maniere per raccontare come tutto questo sia stato generato e, soprattutto, si sia a tutt’oggi mantenuto. L’una – perseguita in questa ricerca - sta nel solco della memoria; l’altra è quella di concentrarsi su di una analisi di sistema.
Le interviste svolte con una trentina di imprenditori offrono un affresco composito e, per quanto già conosciuto, sempre stupefacente del “fare impresa” nei distretti industriali italiani. Alessandro Loison comincia a lavorare nella panetteria paterna quando ancora frequentava la quinta elementare, a 10 anni e mezzo; la classe a cui si fermerà Rino Mastrotto, perché “a quei tempi non c’era lavoro, non c’era niente”; un contesto di indigenza che, a soli 17 anni, spingerà Placido Agostino De Rossi a farsi minatore in Australia. De Rossi tornerà in Italia per mettersi in proprio: dopo tutto, come ricorda, aveva “otto fratelli qui”. A sentire questi imprenditori, una storia comune. Le sole risorse abbondanti in quell’Italia agricola erano le braccia e i parenti (qualche volta sovrapponibili)!
Ma in che modo la famiglia allargata, da giogo quotidiano – la letteratura contadina e dell’emigrazione è piena di riferimenti alle troppe “bocche da sfamare” - diventerà un atout per la rivoluzione  industriale imminente? Perché il punto di vista dei testimoni su questo punto si fa ricorrente e quasi monocorde: nella famiglia viene di norma identificato il primo tra i fattori ambientali che hanno generato il proprio “decollo” aziendale. E non è forse inutile rilevare come la tipologia d’impresa e familiare qui veicolata finisca per ricalcare il modello proprietario maschile centrato sul pater familias. Fioccano non a caso, nel testo, forme proverbiali di questo tenore: “Tutti i carri hanno un solo timone, se si segue quello si va avanti, altrimenti se cominci a rompere una ruota il carro va storto”.
Dietro la rappresentazione semplificata di un ordine sociale vi sta senz’altro quel paternalismo organico di cui parla Giovanni Luigi Fontana nella postfazione. Ma il vero credo di questi imprenditori rimane il mercato. Per restarvi aderenti – come rilevano Celetti e Novello a commento dei capitoli finali dedicati ai più recenti processi di delocalizzazione – si è disposti ad abbandonare “qualsiasi tradizionalismo per accogliere strategie di crescita ed adattamento”. Il volume chiude così di fronte alle sfide portate sui nuovi scenari; o, per meglio dire, sfuma regalandoci un dubbio. L’epica presente che ci viene restituita, di questi imprenditori, non è infatti quella sovrarappresentata degli abili  “conquistadores” di esotici mercati; si nutre, altrimenti, di domande ulteriori intorno al senso storico di ciò che si va facendo. E qui, nel decalage che il volume registra fra motivi antropologici e riflessioni di sistema, si aprono peraltro anche alcuni interrogativi metodologici.
Ritorniamo agli obiettivi della ricerca, alle aspettative della committenza, a ciò che può dare o, forse, non bisogna pretendere dalla storia orale. I curatori, nelle pagine introduttive, riassumono brevemente la procedura utilizzata. Fondamentalmente, si è proceduto con una griglia semistrutturata, la più flessibile per gli usi polisemici che ci si era proposti: raccogliere per ciascun testimone l’autostoria (“parlare di se stesso”), il senso del proprio cammino (“della sua formazione culturale e professionale”), il posto che ricopre (“tracciare un profilo generale della propria impresa”), la ricezione che ha del proprio ambito di vita e lavoro (“un’opinione sul contesto socio-economico nel suo complesso”).
Il problema è che la storia orale dà risposte sui primi due punti, in quanto riguardano la soggettività e la mentalità, cioè si occupa di ragioni e sentimenti che vanno compresi entra la medesima sfera di irriducibilità. Quando è costruita nella sua univoca universalità, la fonte orale offre straordinarie opportunità analitiche e, aspetto non trascurabile, le sue valenze euristiche non decadono nel tempo. Nel caso specifico, per riprendere un passo dei curatori, attraverso la fonte orale si ha modo di “accedere ad una dimensione nuova del fare storia d’impresa, poiché l’azienda viene considerata anche come luogo di relazioni”. E però, si faccia attenzione, una cosa è la biografia dell’imprenditore e un’altra la storia di impresa: si può davvero pensare che l’una sia specchio dell’altra?
Sovvengono alcuni degli interrogativi che, nel corso degli anni ’80, finirono per investire il filone già assai robusto degli studi di fabbrica. Allora, certo, ad essere investigato era piuttosto il punto di vista dei lavoratori in relazione alla vita nella fabbrica. A un certo punto, ci si cominciò a chiedere in che modo nella biografia del singolo operaio potessero davvero risolversi la storia e le aspettative collettive di un’intera classe sociale. In quel caso, complice il cambio dei paradigmi interpretativi, si è probabilmente finito per gettare il bambino con l’acqua sporca. Perché il problema, con le fonti orali, non è quello sovente paventato di assolutizzare o di mitizzare la singola fonte. Che sia irripetibile è un fatto. Ma quale è la rappresentatività che vi attribuiamo? Dipende, per l’appunto, dalla strumentazione analitica che il ricercatore, sin dall’opzione originaria nella tipologia di intervista, intende mettere in campo.
Attraverso l’universo-mondo di una sola biografia imprenditoriale noi possiamo legittimamente provare a decodificare il funzionamento di un intero distretto. Ma lo faremo su di un piano epistemologico: per cogliere nei modi della autorappresentazione quel certo gioco di vuoti e pieni - composto di valori fondanti e lutti rimossi, aspettative e omissioni - che sorregge ogni visione del mondo. Soprattutto, ponendoci in chiave di storia delle mentalità, ci interessa comprendere e interpretare i punti in cui si sono modificati gli atteggiamenti. Tutt’altro piano è quello sociologico, per quanto conseguito ponendo la massima attenzione ai valori storico-antropologici. Perché in tal caso abbiamo bisogno di materiali - ovvero risposte, se stiamo utilizzando le fonti orali – tra loro comparabili.
Scorrendo il volume in oggetto, lo scarto appare evidente: vi sono capitoli dove i testimoni hanno storie da narrare in prima persona ed altri nei quali prevale la preoccupazione di spiegare “come funziona”. Non è questione di mettere il diavolo con l’acqua santa. Si tratta di due piani che, in una certa misura, possono convivere e qui lo fanno, ancora restituendoci tutto il valore documentale di questa ricerca; ma è proprio la grande ricchezza dei materiali raccolti che richiede, per essere accolta, un approccio strumentale e anche discorsivo differente.
C’è un discorso primordiale del fare che rinvia alla etica del rischio imprenditoriale e attraversa la temporalità: ieri come oggi si è disposti a buttarsi, anche rischiando l’osso del collo. Su questo piano della rappresentazione vale un’analisi portata in termini di antropologia culturale, psicologia sociale, storia delle mentalità. A fianco di questo, prende forza un discorso della crescita che riflette le compatibilità ambientali: la lunga marcia pionieristica per uscire dalla economia di sussistenza ha portato alla costruzione di un “sistema locale” ove, volenti o nolenti, si ha da rispecchiarsi. Si tratta di un piano che ingloba un certo numero di informazioni economiche ed evenemenziali intorno ai regimi di storicità, senza le quali il rischia di rimanere a noi inintelligibile. La postfazione di Fontana risponde egregiamente allo scopo ma si tratta per l’appunto di un altro genere di discorso. Quando ciò che infine rimane da attraversare e problematizzare, tra la narrazione autobiografica e l’analisi di sistema, è lo spazio del discorso microstorico. Cui afferiscono apparati analitici e interpretativi distinti, tra loro connettibili ma non cumulabili come è proprio della network analysis.
Nel caso in questione stiamo trattando di una storia che viene esplicitamente inscritta entro il paesaggio veneto e ha dato forma a specifiche economie distrettuali. Una storia fatta di una pluralità di attori e a cui si vuole restituire coralità territoriale. Diventa oggi tanto più interessante spostare lo sguardo sui nodi – i punti di giuntura ma anche le soglie di connessione tra reti locali ed economie di filiera – che connotano il profilo di questa esperienza e ne fanno una figura dello sviluppo.
C’è tra l’altro una scelta nominalistica che va ponderata e motivata. Trattare, come si fa al capitolo IX, di “lavoro e capitale umano” non è la medesima cosa che discutere – per riprendere gli studi di Franco Ramella – di reclutamento e capitale sociale. In tempi di migrazioni massive, preme oggi capire - al di là di ogni facile reificazione in tema di valore-lavoro - per quali canali di mobilitazione passi insieme al collocamento la riproduzione dei “saperi locali”, sotto le spoglie di “buona” reputazione. Così come non ci può bastare l’osservazione che sui rapporti con il sindacato “gli imprenditori non gradiscono soffermarsi”; perché se da un lato concedono poco all’interrogazione frontale, in tema di relazioni sindacali, l’argomento fa poi capolino (magari sotto un segno di insofferenza) quando si passa a trattare della internazionalizzazione. E ancora, che cosa pensare della mancanza di qualsivoglia riferimento al genere? Qui sta il problema: è un silenzio che non sappiamo come interpretare perché non ce ne vengono dati gli strumenti.
Mentre appunto queste note in chiaroscuro, so di travalicare i confini geostorici della ricerca sul campo condotta da Elisabetta Novello e David Celetti. I rilievi critici contengono un’essenza anche autocritica, estendibile a quanti utilizzano le fonti orali per la storia d’impresa. È tempo, credo, di riavviare una riflessione sul metodo.
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