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                recensioni | 
               
			   
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                                  F. Bulegato,  I musei d’impresa. Dalle arti industriali al design, 
                                    Roma, Carocci editore, 2008, pp. 208, € 18,60 
                                     recensione di Chiara Nenci
                                  
                                                                  | 
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                            Titolo  e sottotitolo del libro di Fiorella Bulegato, oltre a richiamare lo studio  pionieristico di Ferdinando Bologna Dalle  arti minori all’industrial design. Storia di un’idea, pubblicato nel 1972, promettono  un contenuto denso di liaisons e  un’articolazione del dibattito sui musei d’impresa che lo colloca nel più  esteso ambito critico della valorizzazione della cultura materiale. Intenzioni  non tradite da un testo che, prima di arrivare al vivo della trattazione nei  capitoli terzo e quarto, fa tesoro della crescita degli studi in questo  settore, che hanno ormai maturato trent’anni di riflessioni, iniziate con le esplorazioni  storico-economiche negli archivi delle imprese negli stessi anni in cui si imparava  a leggere i segni lasciati dell’operosità dell’uomo e a trattarli come veri  monumenti della storia. L’argomento, come è noto, è col tempo divenuto oggetto di  convegni dedicati, che sono ormai degli appuntamenti di riferimento importanti  per il confronto con gli altri paesi sui temi del corporate heritage.  
                              Il  libro comprende quattro capitoli: Il museo  contemporaneo e i musei d’impresa; La  nascita e lo sviluppo della arti industriali in Italia a metà Ottocento; I musei d’impresa industriale contemporanei; Il museo d’impresa al servizio del  progetto. E un’appendice che, a 10 anni dalle schede di Monica Amari nel  suo I musei delle aziende. La cultura  della tecnica tra arte e storia, censisce i principali musei, archivi e  collezioni del patrimonio industriale, aggiornando la distribuzione sul  territorio di questi bacini culturali. 
  È evidente  che il nucleo della ricerca sta in quei capitoli finali dove si concentra uno sforzo  analitico applicato alla classificazione dei musei d’impresa italiani e alla  riflessione sui tre casi studio (Archivio-museo Alessi, Museo Ferragamo, Tif-Tipoteca  italiana fondazione), ritenuti significativi per la complementarietà instaurata  tra lavoro aziendale e conservazione del proprio materiale storico, e dei quali  la Bulegato mette bene in luce differenze e criticità. È in questa parte, infatti,  che si approfondisce l’ambito d’indagine e si dipana la classificazione proposta  dall’autrice per i musei del patrimonio industriale (musei dell’industria e del  lavoro; musei di distretto d’imprese ed ecomusei; musei d’impresa strettamente  intesi; archivi-collezioni d’impresa; collezioni tematiche di tipologie di  artefatti; archivi storici), con l’articolata tassonomia necessaria a chiarire  inclusioni ed esclusioni, poggiante su quella proposta da Massimo Negri nel  primo manuale dedicato all’argomento, in cui già si chiariva la necessità di  evidenziare i prerequisiti di questi musei, per non fare confusione con altre  modalità di comunicazione che hanno a che vedere piuttosto con le aree  commercial-espositive interne alle aziende stesse.  
   La Bulegato tocca nel vivo le specificità dei  musei d’impresa contemporanei attraverso l’analisi dei requisiti, dei caratteri  peculiari, e delle strategie narrative che il racconto di una storia aziendale  comporta: un racconto che, nei casi migliori, vede coprotagonisti attori quasi  scomparsi dai musei “tradizionali” e ormai di rado chiamati in scena in  occasioni espositive che difficilmente scaturiscono da nuove iniziative di  studio: i documenti d’archivio, i progetti, il contesto culturale. Quasi che la  sensibilità rivolta al come far emergere il contesto di un artefatto attraverso  una molteplicità di letture possibili (morfologiche, sociologiche,  antropologiche, tecniche ecc.), e la consapevolezza del problema di storicizzare  il contemporaneo in continuo divenire, si fossero ormai ritagliate un ristretto  campo d’azione nei musei delle aziende, in un momento attuale che vede il museo  tradizionale indietreggiare di fronte a queste riflessioni e rifugiarsi in una  autoreferenziale auraticità dell’oggetto esposto e dell’edificio museale  stesso. In un’epoca di boom museale, in cui, come ha scritto Gregotti, il  museo-supermercato ha rinunciato ormai al suo ruolo attivo, considerato un  tempo il più nobile, di essere luogo di produzione e di discussione, ecco che  invece il museo d’impresa diventa bacino di suggestioni per i progettisti  (arrivando ad esporre persino i pezzi non entrati in produzione, come nel casi  di Alessi), e avoca a sé proprio quel ruolo perduto, legando il racconto del  passato alla produzione (e al consumo) nel tempo presente. Missione possibile  in quanto, diversamente dai musei della scienza e della tecnica, dove  evidentemente il vintage coincide con  l’obsoleto e non ha futuro, i musei d’impresa possono concedersi il privilegio  di rimettere in gioco le conoscenze, riportando in vita stili e modi delle  produzioni passate, ricreando quella relazione virtuosa tra progettazione e  consumo che i musei industriali anglosassoni avevano ben presente sin dalla  loro nascita. A proposito di questo, l’heritage inteso come fonte per il progetto, viene spontaneo concludere che in un certo  senso i musei d’impresa potrebbero essere considerati gli ultimi depositari  dello spirito del museo illuminista e ottocentesco, votato all’educazione e al  bello: pensare a giovani progettisti che si rivolgono alla tradizione per la  produzione di oggi, rievoca vagamente quelle stampe dell’Ottocento in cui la  passeggiata borghese nelle sale dei musei sfiorava i cavalletti degli artisti  ancora per poco impegnati nella copia dei maestri del passato. 
                              La  storicizzazione e il racconto dell’evoluzione dei musei d’impresa, trattati nella  prima parte del volume con pari impegno critico, offrono agli studiosi appassionati  del tema riferimenti circostanziati e spunti di riflessione. Infatti, così come  nei migliori casi museali la valorizzazione dell’oggetto passa attraverso la  comprensione del suo rapporto con la storia, per metafora si potrebbe dire che  in modo analogo la Bulegato arriva a tracciare un profilo aggiornato dei musei  d’impresa italiani non senza aver prima attraversato un terreno di conoscenze  storiche necessarie e allargate, percorrendo la strada già battuta dagli studi  di Drugmam, Basso Peressut, Brenna, sui cosiddetti musei della cultura  politecnica. Per la prima volta, infatti, in un libro sul patrimonio  dell’industria, si affronta con un’ampia prospettiva storica non solo il noto  tema dei musei di arti applicate in rapporto al fenomeno delle esposizioni  universali, ma più significativamente le vicende dei musei artistico-industriali  nell’Italia postunitaria. Dal Regio museo di Torino aperto nel 1862, cui  seguirono il Museo artistico e industriale di Roma (1874) e quello napoletano  fondato da Gaetano Filangieri nel 1879, al primo nucleo delle Civiche raccolte  di arte applicata che a Milano trovò collocazione nel Castello sforzesco all’apertura  del Museo artistico municipale.  
                              In  parallelo, è tracciata la storia dei primi musei d’impresa nell’Italia del  primo Novecento, non senza un accenno alla scarsa considerazione per la cultura  tecnico-scientifica, all’imprinting crociano del sistema educativo, nonché al carattere  idealistico della coeva cultura museologica, circostanze culturali che portarono  nel secondo dopoguerra a dividere definitivamente le strade del museo da quelle  degli istituti d’arte (esemplare il caso del Museo artistico industriale di  Roma e della sua involuzione dopo la riforma Gentile, fino allo smembramento delle  collezioni).  
                              Un tema  che è solo accennato nel testo, e che in altre sedi ci piacerebbe vedere maggiormente  esplorato, è quello della forma dei  musei d’impresa, sul quale la Bulegato introduce la riflessione sulla scelta  piuttosto comune, ed elementare, di usare forme architettoniche e allestitive  che rimandano alla morfologia dell’oggetto esposto, o alludono alla scenario  reale dell’oggetto ricreandolo nel teatro museale, come in quei musei  dell’automobile che richiamano rampe di garage o circuiti di autodromi. 
                              Nonostante  il libro della Buligato non approfondisca quello che la stessa autrice avverte  essere un confronto necessario, ovvero quello con il panorama museografico  contemporaneo, questa lettura porta inconsapevolmente a riconsiderare alcuni  comportamenti attuali. Contro ogni globalizzazione museale e la connessa  perdita di identità con il territorio e la sua storia da parte dei musei  tradizionali, i musei d’impresa, invece, sull’identità, la memoria e il rapporto  con il territorio fanno crescere culturalmente la propria individualità. La  minacciata nascita di un secondo Louvre nell’emirato di Abu Dhabi, annunciata  per il 2012, è l’occasione che ha spinto Jean Clair in un recente pamphlet (Malaise dans les musées, edito in italiano da Skira), a smascherare  questi cosiddetti “progetti della cultura immateriale e universale”, in cui  pochi (s)fortunati musei-marchio non diventano altro che gli ambasciatori di un  grande vuoto culturale. Come a dire: dagli ecomusei ai musei globali, dalla  tesaurizzazione della cultura materiale alla povertà culturale delle attuali  “imprese dei musei”. 
              In  conclusione, un rammarico: in un libro uscito nel maggio 2008 e dedicato con  tanto scrupolo analitico e bibliografico a questi temi, che puntualizza l’anomalia  italiana di non avere avuto finora un museo nazionale del disegno industriale, si  sarebbe desiderato conoscere il parere dell’autrice sul neonato Museo del design,  inaugurato nel dicembre 2007 nel Palazzo della Triennale a Milano, definito da  chi lo dirige un sistema mutante di museo-laboratorio, che ha la particolarità  di proporre allestimenti tematici ideati per una durata “temporanea” di 12-18  mesi e si offre quale tessuto di connessione proprio per quei preesistenti giacimenti  del design diffusi sul territorio, che altro non sono che le collezioni  aziendali e i musei d’impresa.
                             
                            
                           
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