Lo scorso 16  giugno nella sede della
 Fondazione Isec  di Sesto San Giovanni si è tenuta una giornata di studio  sul tema 
Cultura, comunicazione e impresa in Italia. 
                      Il  seminario – organizzato da chi scrive con Giorgio Bigatti e promosso dall’Isec insieme all’
Istituto lombardo di  storia contemporanea, l’
Università Iuav di Venezia e la città di Sesto – ha confermato  l’interesse che investe ultimamente una stagione particolare del rapporto tra  impresa e cultura in Italia: la stagione che va dal secondo dopoguerra al  miracolo economico e vede la grande industria italiana coinvolgere  intellettuali, artisti e designer nella costruzione della propria immagine  pubblica. 
                              Come  ha ricordato Bigatti nel suo intervento di apertura, l’iniziativa ha fatto  seguito a un primo seminario svoltosi a Venezia nel 2006, in cui si era dato  spazio principalmente al punto di vista di chi studia le arti, l’architettura e  il design. Nel seminario dell’Isec, l’idea è stata invece di invitare  prevalentemente storici economici e dell’industria, studiosi dell’impresa e dei  saperi ad essa legati, i quali hanno riflettuto da un’ottica diversa sulle  strategie di comunicazione e la politica culturale di aziende come Eni,  Finmeccanica, Italsider, Olivetti, Pirelli e La Rinascente.
                              Nel  mio intervento della mattinata, sottolineavo come si possano rintracciare tre  aspetti comuni all’esperienza di questi grandi gruppi imprenditoriali: 
                            
                              - un  metodo di costruzione dell’immagine aziendale sviluppato prevalentemente  dall’interno;
 
                              -  il tentativo di trovare punti di raccordo tra le cosiddette “due  culture”; 
 
                              - e infine un rapporto controverso, non facile da decifrare, con i  saperi professionali e le teorie aziendali provenienti dagli Stati Uniti.
 
                            
                             Nel corso della  giornata tali temi sono tornati ripetutamente al centro della discussione,  evocati più o meno esplicitamente in tutte le relazioni che si sono susseguite.
                              Molti interventi, innanzi tutto, hanno fatto riferimento al forte controllo  interno che le grandi aziende del dopoguerra mantennero sulle attività  promozionali e le iniziative finalizzate a veicolare la propria immagine.  Almeno fino alla metà degli anni sessanta, infatti, nelle maggiori imprese  italiane resisteva la presenza di grandi dipartimenti denominati di volta in  volta “direzione stampa e pubblicità”, “servizio propaganda” o semplicemente “ufficio  pubblicità”. Per quanto non sia sempre facile trovarne traccia negli archivi  aziendali, ricostruire nei dettagli l’attività di tali divisioni interne alle  imprese è un’operazione che può rivelarsi particolarmente fertile. Fu al loro  interno, infatti, che spesso si riuscì a mettere a punto una forte identità  estetica e culturale dell’industria, sulla scia del modello olivettiano.
                              Donato  Barbone, ad esempio, nel suo intervento dedicato alla Pirelli, ha fornito  alcune informazioni di estremo interesse sugli anni in cui la “propaganda”  dell’azienda milanese era diretta da Leonardo Sinisgalli e poi da Arrigo  Castellani. All’epoca in Pirelli lavorava anche il poeta Vittorio Sereni, che  era a capo dell’ufficio stampa e si occupava dei testi pubblicitari. Non  stupisce allora che nelle pagine di un prezioso giornalino interno citato da  Barbone si dibattesse sottilmente di arte e tecnica, soggettività e oggettività  nel campo della comunicazione pubblicitaria.
                              Sul  ruolo di alcuni specifici organismi della grande impresa italiana si è  soffermato anche Fabio Lavista, che ha analizzato la creazione all’interno di  gruppi come Olivetti, Iri e Eni di  uffici studi che si occuparono, tra le altre cose, del tentativo di avviare una  programmazione economica in Italia.
                                                          Se  l’industria di quegli anni cominciava a sperimentare l’innesto in ambito  aziendale di saperi umanistici come la psicologia e la sociologia, non c’è  dubbio che nell’attività degli uffici pubblicità e relazioni pubbliche, così  come nei dipartimenti che gestivano le relazioni con il personale, si mise in  atto un ambizioso, generoso, quanto a volte ingenuo tentativo di raccordo tra  cultura umanistica e cultura industriale, tecnica, ingegneristica. Si tratta di  una prospettiva che era sorta certamente in Olivetti e che, nel secondo  dopoguerra, grazie anche a personaggi come Leonardo Sinisgalli, era approdata  in altri centri della grande industria italiana. A tal proposito Giuseppe  Berta, nella sua relazione, ha ricordato che occorre rivedere drasticamente i  giudizi superficiali che all’epoca parlavano di una sorta di corte feudale  riunita intorno alla figura di Adriano Olivetti. Berta ha insistito sul  rapporto non esornativo degli intellettuali nell’azienda di Ivrea,  soffermandosi in particolare su un personaggio come Riccardo Musatti, uno degli  uomini maggiormente partecipi del progetto comunitario, lucido interprete della  questione meridionale e direttore negli anni sessanta dell’ufficio pubblicità  Olivetti. Su una linea analoga, Franco Amatori ha sottolineato che La  Rinascente, nel suo periodo di massima espansione del dopoguerra, promuoveva  attivamente il design e faceva cultura organizzando celebri mostre all’interno  dei grandi magazzini, proprio mentre metteva a punto efficaci strategie di  razionalizzazione manageriale e introduceva innovazioni sul piano del  marketing. 
                              Molti  altri, tra coloro che sono intervenuti, hanno messo in luce quanto in quella  stagione si riuscisse, al di là del semplice arruolamento di scrittori e  intellettuali in azienda, a realizzare uno scambio proficuo tra le “due  culture”.
                                                           L’altro tema comparso frequentemente durante la giornata è il  rapporto con i saperi professionali e manageriali statunitensi, sottoposti  spesso a un processo di adattamento, rinegoziazione e reinterpretazione. Da  questo punto di vista, sono sembrate significative le considerazioni di Sandro  Rinauro sulle diffidenze e le resistenze da parte di dirigenti e imprenditori  italiani nei confronti di metodi come le indagini di mercato. Il pregiudizio  culturale che intellettuali e manager italiani condividevano nei confronti dei  metodi quantitativi della statistica ha infatti un corrispettivo molto interessante  nel dibattito che vide confrontarsi in quegli anni, da una parte, i sostenitori  del marketing e delle teorie americane sull’advertising e, dall’altra, gli scrittori, gli artisti e i graphic designer che lavoravano  negli uffici pubblicità della grande industria. 
                              Sul piano  dell’assimilazione delle culture provenienti d’oltreoceano grande importanza  rivestì a partire dal secondo dopoguerra anche l’introduzione di discipline  come le Human e Public relations. Esse svolsero un ruolo di primo piano, ad esempio,  nel caso della siderurgia pubblica, cui si è dedicato ampio spazio nel  programma della giornata con la proiezione del film Le mani! La testa! Gli occhi! Eugenio Carmi, un artista in fabbrica (Genova 2006). Alla Cornigliano di Genova acquisì subito estrema importanza  l’idea, tipica delle relazioni pubbliche,   che l’azienda dovesse essere  una “casa di vetro”, aperta allo sguardo del pubblico sia esterno che interno  all’azienda. Questa operazione fu affidata fin dall’inizio non solo alle  competenze giornalistiche dei membri dell’ufficio pubbliche relazioni ma anche  alla regia visiva di un artista come Eugenio Carmi, ingaggiato nel 1956 da  Gianlupo Osti, dirigente illuminato della Finsider e iniziatore di una linea  che avrebbe portato, nei primi anni di vita della nuova società Italsider, alla  creazione di grandi iniziative culturali come la mostra Sculture nella città tenutasi a Spoleto nel 1962.
                              I  caratteri straordinari di tutta questa esperienza appaiono chiaramente nel  video diretto da Fabio Bettonica (ideazione, testi e sceneggiatura di Eugenio  Alberti Schatz e Valentina Carmi), che raccoglie le testimonianze, tra gli  altri, di Gillo Dorfles, Umberto Eco e Arnaldo Pomodoro. Vi si trova  ricostruito efficacemente il modo in cui – attraverso il lavoro di Carmi – gli  altiforni e i treni continui, il lamierino e gli altri prodotti semilavorati,  gli operai e la vita dell’intera comunità aziendale, fino ai dati più astratti  sull’andamento economico dell’azienda furono resi parte di un’immagine  fortemente estetizzata, che aveva alle spalle una visione utopica del rapporto  tra le arti e l’industria. L’artista genovese era presente in sala ed è  intervenuto al termine della proiezione. 
                              Gli  altri interventi della giornata si sono soffermati su aziende altrettanto  importanti nella fase del dopoguerra. Alberto Bassi ha passato in rassegna  nella sua documentata relazione i successi ottenuti dalla Breda nelle diverse  discipline del progetto: dall’architettura al disegno industriale, fino alla  progettazione grafica dei materiali promozionali. Biagio Longo ha parlato della  comunicazione all’Aem di Milano, mentre Daniele  Pozzi ha affrontato il caso dell’Eni,  esaminando in tutta la sua ricchezza di articolazioni la strategia di  comunicazione istituzionale adottata durante il periodo in cui l’azienda fu  guidata da Enrico Mattei. Il rapporto serrato con la cultura statunitense, la  creazione di un servizio studi popolato di giovani intellettuali, il linguaggio  moderno della comunicazione affidata alla grafica, al cinema industriale e  all’architettura, sono tutti aspetti che fanno dell’Eni un esempio di grandissimo interesse nel quadro delineato  finora, al di là degli aspetti specifici legati alla figura di Mattei. 
                              Molte  vicende industriali citate nella giornata dell’Isec  erano, d’altra parte, strettamente legate al nome di un dirigente o di un uomo  di impresa capace di fare da ponte con il mondo della produzione culturale.  Paolo Rossi accennava a tal proposito alla possibilità di domandarsi se figure  come quella di Giuseppe Luraghi (e con lui Adriano Olivetti, Giuseppe Martinoli  o Gianlupo Osti) siano da considerare manager prestati alla cultura o  intellettuali dotati di grandi capacità manageriali.
                              Tuttavia,  non fu soltanto la scomparsa di queste figure eccezionali a determinare, sul  finire degli anni sessanta, il declino di un modello di costruzione  dell’immagine aziendale che aveva puntato molto sulla cultura. Come è apparso  evidente nella relazione di Paolo Bricco, l’eredità lasciata da Adriano  Olivetti nella sua azienda – ad esempio – ha resistito a lungo, fin quando è  stato possibile trovare forme di continuità con la sua idea particolare di  impresa, almeno nel campo del design e della politica culturale.
                              A  giudizio di Nicola Crepax, intervenuto sulla figura di Luraghi, quel mondo in  cui era possibile vagheggiare una nuova integrazione tenico-umanistica in nome  dell’industria, è finito insieme all’impresa fordista e alle sue ambizioni di  intervento nella vita dei lavoratori e nella società. Sul piano più specifico  delle strategie di comunicazione giocarono sicuramente un ruolo fortissimo  l’emergere di modelli alternativi legati al marketing e la crescente  impopolarità dell’industria in quello stesso ambiente intellettuale che negli  anni cinquanta se ne era spesso innamorato.
                              Riconsiderando  i diversi contributi della giornata, si avverte dunque la necessità di  conoscere meglio quella stagione irripetibile, estendendo magari l’indagine a  casi meno noti. Occorre evitare però ogni tentazione di rievocazione  nostalgica, che non tenga conto anche degli aspetti contraddittori,  paternalistici e velleitari, che pure esistevano nelle diverse esperienze di  quegli anni. Una prospettiva importante sarebbe, del resto, quella di provare a  rintracciare filoni di continuità e comprendere quale sia l’eredità lasciata da  quella fase pionieristica, piena di facili entusiasmi e felici intuizioni, nei  rapporti tra imprese e cultura in Italia.